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« Torna agli articoli di Costanza Miriano
Ore 19 e 02. Calcolando che la strada è rallentata dai lavori, basta uno in doppia fila che faccia scendere la nonna finta invalida e posso contare ancora in un'ora e diciotto minuti prima che gli ospiti arrivino. Devo solo: preparare la cena, tutta tranne la carne – quella l'ho già bruciata (ho dovuto mettere la muta alla Barbie surfista nel momento decisivo, e secondo me lei era un po' ingrassata) – apparecchiare (ho solo sei forchette uguali, ma pare che la tavola spaiata faccia molto degagee), correggere due dettati e riascoltare storia, fornire a quattro figli quattro travestimenti da ragazzi a modo, possibilmente della taglia giusta o con una ragionevole approssimazione, più alcune rapide formalità tipo demolire il fortino costruito sul divano con le insegne delle femmine ("io mi lamento per principio" e "vietato ai maschi"), nascondere con poche abili mosse orsi dentro a ripostigli e furetti sotto i letti.
Poi dovrei anche truccarmi e cambiarmi, metterò la vestaglietta nera effetto snellente, si sa che tutti i "ma come cucini bene" del mondo non varranno mai un "ti trovo dimagrita". Intanto la crisi isterica di un figlio per il compito in classe di domani è in pieno svolgimento, quindi anche lì siamo avanti col ruolino di marcia, non ci dovrebbe volere ancora molto. Le due femmine discutono se sia la signora Nesbitt a dover preparare il tè o no. Non so chi sia la signora Nesbitt, ma fino a che la rissa non sfocia nel sangue la cosa non mi riguarda (e anche in quel caso mi riguarda solo se è molto, il sangue). Un altro figlio è a tennis, ma può tornare da solo, se chiudiamo un occhio sul fatto che diluvia, e che la Madre Diligente che incarna i miei sensi di colpa mi sta intimando di andarlo a prendere in macchina, o almeno con un ombrello. Do un pugno alla Madre Diligente, indosso il mio pratico sandalo da pioggia (sostengo da sempre che se piove o nevica è meglio essere più nudi possibile, la pelle umana si asciuga prima della lana) e vado a messa, ché stamattina l'ho persa. Raggiungo la chiesa in trentacinque secondi netti, e scopro che oggi c'è il sacerdote coreano, quello a cui hanno asportato il sistema nervoso. Potrebbe volerci più del previsto e in più non capirò una parola. Prego Nostra Signora dell'Accelerazione. Per la prima volta nella giornata Pollyanna, il mio alter ego, incaricata di trovare un lato positivo in tutto quello che succede al mondo, vacilla. Sembra anche lei dubitare che io possa farcela stavolta, ma le do una gomitata, e le indico il nostro Principale, quello che sta lì sulla croce. Anche per lui a un certo punto sembrava che le cose avessero preso una brutta piega, ma meglio di così, poi, non sarebbe potuta finire. Quindi le ricordo una delle regole base della vita: quando tutto si sta complicando, quando sei in ritardo clamoroso o in difficoltà anche molto seria, e non sai da che parte cominciare, lascia stare tutto e vai alla messa.
Comincia così il mio "Obbedire è meglio, Le regole della Compagnia dell'agnello". La giornalista di Grazia che mi ha intervistata mi ha detto che sembra la versione cattolica di "Ma come fa a far tutto", il libro da cui hanno tratto il film con Sarah Jessica Parker, in cui la supermanager mamma alle due di notte prende a martellate i dolcetti comprati per la festa scolastica dei figli, per farli sembrare fatti in casa. "Tu – mi ha fatto notare la collega – in una analoga situazione di panico che ti metti a fare? Vai alla messa?"
Non so se volesse essere un complimento, ma io l'ho preso così. Il mio obiettivo era scrivere una specie di diario che raccontasse l'epica dell'ordinario, l'eroismo di entrare nel vagone della metro stracolmo, di continuare a sorridere alla collega logorroica, la grandezza di correggere i compiti con la testa che ciondola dal sonno e la forza di stare – questo è il verbo chiave, stare, consistere – al proprio posto di combattimento, senza cedere di un centimetro (a dire la verità io a volte cedo rovinosamente, e di qualche metro, ma l'importante poi è rimettersi in piedi).
Obbedire è meglio del sacrificio, dice il libro di Samuele (grazie a Roberto Dal Bosco che me lo ha suggerito, il titolo). Noi a volte cerchiamo grandi cose, grandi imprese da compiere, e magari ci piacerebbe essere capaci di offrire grandi sacrifici, ma tutto quello che ci viene chiesto, invece, è stare al nostro posto, sfuggire alla tentazione, che è quella principale per l'uomo contemporaneo, di immaginare sempre un'altra vita altrove, un'altra vita in cui abbiamo un'altra moglie (o marito), un altro lavoro, altro tutto. A volte è un eroismo piccolo e semplice, questa fedeltà alla nostra chiamata. A volte è un eroismo vero e proprio, ed è quello che mi hanno insegnato i tanti amici che io considero la mia Compagnia dell'agnello, che esistono davvero, e sono amici nella comunione dei santi, amici che avevo da prima e altri che mi ha regalato questa avventura dello scrivere. C'è quella con il figlio malato, c'è quella col marito depresso, chi ha problemi economici, chi è malato, chi è solo e continua lo stesso a tirare fuori qualcosa di buono da dare a tutti. Sono amici che incontro ogni volta che posso o che riesco a volte a vedere poco, pochissimo, amici con cui ci si incrocia in stazioni e aeroporti, oppure con cui si sta al telefono nel cuore della notte, perché avere qualcuno che ti faccia compagnia è fondamentale per resistere, non per niente Gesù ha fondato la Chiesa.
L'obiettivo è essere agnelli, cioè assomigliare all'Agnello, anche perché, parliamoci chiaro, se non ci fosse Lui, l'Agnello, che ci ama pazzamente, obbedire non avrebbe nessun senso. Noi non siamo masochisti, ma obbediamo perché ci fidiamo di qualcuno più che di noi stessi.
A differenza dell'uomo contemporaneo, che si sente totalmente autodeterminable, e che quindi ritiene parole come obbedienza e sottomissione turpiloquio, il cristiano sa che da solo non è capace di far nulla, e che non fidarsi di sé è qualcosa che salva, che ti fa essere più felice, che alla fine è quella l'unica cosa che ci interessa.
Non fidarsi di sé significa che a volte è necessario chiudere le proprie emozioni in cantina, o meglio, in acquario ben sigillato, col silicone, e andare avanti, con un fedele ostinato lavoro minuto per minuto. Non fidarsi di sé significa ascoltare un'altra voce che non sia la nostra. Certo, questa voce va scelta bene. E se uno deve scegliere, è bene puntare alto, no?
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