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« Torna agli articoli di Andrea Zambrano
Adesso che è terminato il Sinodo dei giovani, sarebbe il caso di iniziare a pensare anche a un Sinodo degli adulti. O per lo meno un sinodo dei padri. È curioso che nelle 167 preposizioni che compongono il documento finale del Sinodo sui giovani appena concluso in Vaticano, la parola "padri" non compaia mai riferita al compito di paternità come autorità generativa della crescita del bambino. Compare - solo una volta - la parola "padre", che assieme a "madre" si divide il capitolo 33 in un generico e purtroppo insufficiente paragrafo dedicato all'importanza della paternità e della maternità. In esso vi si dice che "molti padri svolgono con dedizione il proprio ruolo, ma non possiamo nasconderci che, in alcuni contesti, la figura paterna risulta assente o evanescente, e in altri oppressiva o autoritaria". Tutto qua? La sfida che si apre per i giovani e nella quale i padri hanno importanza così decisiva si ferma soltanto alla presa d'atto che i genitori d'oggi sono ormai evanescenti? Converrebbe avere la lucidità di ammettere che oggi i giovani costituiscono un "problema" - di sfide, di slanci, di sogni - perché i loro padri sono un problema.
PADRE: IL GRANDE MALATO
Il grande malato in realtà non è il giovane, secondo le sue varie accezioni di adolescente e ragazzo, ma suo padre. Il giovane di per sé non dovrebbe essere un problema, perché quella della gioventù non può essere una categoria sociale con tanto di sindacato apposito. Non può essere infatti la giovane età una condizione eterna del vivere e fissata da regole, schemi e persino esigenze. Se ci pensiamo, l'adolescenza come "categoria sociale" è stata inventata all'inizio del '900, ma in realtà non è mai esistita. Un giovanetto smetteva di essere tale quando gli si affidava una grande responsabilità. Alessandro Magno a 20 anni aveva già conquistato mezzo mondo conosciuto. E la storia è piena di re adolescenti che in molti casi hanno fatto egregiamente il loro compito. Gli adolescenti smettevano di essere tali quando si iniziava a chiedere loro fatica, responsabilità, senso di appartenenza. In una parola: maturità. È questa maturità che oggi manca non solo nei fatti, ma anche come obiettivo finale da dare ai nostri ragazzi. E manca perché i primi ad essere immaturi sono i loro padri, gli adulti. C'è una trasmissione tv condotta da Enrico Papi che si chiama Guess my age - indovina l'età e mostra il problema attraverso la finzione giocosa di un programma televisivo: viviamo nell'epoca in cui i padri si comportano come ragazzini e i ragazzini si comportano da adulti. Tanto che diventa appunto difficile stabilire le rispettive età perché tutto è sproporzionato o nel giovanilismo o in un irreale e fragile adultismo. In cento anni siamo passati dall'avere i Ragazzi del '99 uccisi nelle trincee della Prima Guerra Mondiale a ragazzi che vivono divertendosi, senza responsabilità, che possono fare sempre qualunque cosa tanto essa è giustificata. I ragazzi si ammalano se i loro padri sono ammalati. Giovani che vivono eternamente in vista di un'eternità effimera e inesistente che scansa le responsabilità e i compiti. Ebbene: a guardarci dentro non sono i bambini ad essere selvaggi, ma i genitori, i quali hanno cessato di arginare il caos emotivo e fisico di un'età che in realtà è soltanto di passaggio. Un'età da non cristallizzare con documenti o chissà quali sinodi, ma che deve finire il prima possibile, deve lasciare spazio ad una vita matura, razionale e nella quale la trasmissione della fede ha dato i suoi frutti in ordine alla consapevolezza di essere persona con un progetto.
LA PROPOSTA RADICALE DI GESÙ
Infatti, anche la Chiesa non si sarebbe mai sognata di avere l'ambizione di voler per forza ascoltare i giovani, se questi non fossero stati elevati a soggetto sociale e giuridico autonomo e con presunti diritti acquisiti. Perché in realtà la Chiesa - che in questo ricalca perfettamente il suo ruolo paterno - sa che più che ascoltarli, i giovani vanno guidati. Insegnare, più che essere ammaestrati da loro. Prendiamo Gesù. Nel Vangelo la categoria "sociale" dei giovani non esiste e sono pochi i passi in cui ricorrono figure di adolescenti. Ma la più celebre è quella del cosiddetto giovane ricco (Mt 19, 16-22). Che si trattasse di un giovane è il testo stesso a dircelo. La parola greca neanìskos infatti indica quello che nella vulgata latina è l'adulescens. Si tratta dunque di un ragazzetto, che avrebbe potuto avere sui 13-16 anni. E che era molto ricco. Ma non per meriti suoi, evidentemente, ma di suo padre o della sua famiglia. Oggi potremmo dire un figlio di papà, abituato alle comodità del suo tempo. Ma educato comunque bene, all'insegna dei saldi principi della morale ebraica del tempo e affascinato da quel Profeta così carismatico che percorreva la Palestina, perché a muovere i giovani è sempre il desiderio di qualcosa di bello. Ma il desiderio da solo non basta, ci vogliono anche altre condizioni: come la responsabilità e la maturità. E queste te le può dare solo un padre che non sia "ammalato". Infatti: dopo aver constatato la sua buona condotta, il rispetto dei comandamenti e tutte le prescrizioni giudaiche, Gesù alza la posta chiedendogli qualcosa di grande: la disponibilità a vivere facendo a meno delle sue ricchezze, quelle che magari avrebbe ereditato dal padre e che gli avrebbero consentito di svolgere una vita tranquilla e senza troppi pensieri. Se ne andò triste, perché nessuno in casa evidentemente gli aveva insegnato che quelle ricchezze non erano lo scopo della vita. Ma Gesù gli ha mostrato una via matura, chiedendogli qualche cosa di alto lo ha messo di fronte ad una scelta radicale, decisiva. Così se ne andò, dominato com'era dalle sue passioni che nessuno prima di Gesù gli aveva insegnato a tenere al suo posto. Chissà che adulto è poi diventato in seguito. Non è una domanda oziosa dato che anche oggi accade lo stesso: abbiamo adulti che sono padri dominati dalle passioni perché da giovani non hanno imparato a riconoscere le leggi morali e religiose, la legge naturale iscritta nel cuore di ogni uomo. Si sono lasciati trascinare soltanto dai cavalli delle passioni senza una guida, che nel mito raccontato da Platone, come un auriga, dirige con la ragione le emozioni. Lo scopo della vita è per loro il soddisfacimento delle passioni. L'importante è godersela senza costruire il progetto che Dio ha su ognuno di noi, assecondando invece il progetto marxista di un uomo che è libero perché vive come crede.
IL MODELLO DEI SANTI GIOVANI
Invece la proposta di Gesù è esigente e razionale al tempo stesso. E per realizzarla la Chiesa ci ha indicato come modello innumerevoli giovani che l'hanno abbracciata non come il giovane ricco, ma mostrando santità. Senza scomodare i grandi santi giovani della storia della Chiesa, da San Domenico Savio a San Luigi Gonzaga, dal Beato Rolando Rivi al Josè Sanchez Delrio, i quali hanno dato la vita per quel progetto richiesto da Gesù per essere veramente felici, anche la nostra epoca è piena di ragazzi che, spesso nella malattia, hanno rinunciato a tutto per amore di Cristo. Due recenti pubblicazioni ("Giovani campioni" di Francesco Maria Nocelli, edizioni Ares e "Il chicco di grano, storie di Santi giovani in mezzo a noi", di Costanza Signorelli, edizioni La Nuova Bussola Quotidiana) ce lo mostrano chiaramente. E non è un caso che, nel documento finale del Sinodo, salvo un breve cenno, generico e perciò di difficile presa, non compaia nessuno di questi nomi.
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