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Non si muove. Non parla. Non reagisce. È nato nel 1981 ed ha imparato, dopo molti anni, a sbattere le ciglia in modo diverso da prima e, una volta ogni chissà quanto, abbozzare forse un sorriso. Il resto è zero: almeno per quanto è concesso vedere a noi. La morte, tra asfissie e arresti cardiorespiratori, ha provato decine di volte a portarselo via. E a Grazia lo ripeterono spesso: « Lasci che la natura faccia il suo corso... » . Qualcun altro, vedendo che lei gli dedicava amore e tutta la sua vita ventiquattr’ore al giorno, l’ha bonariamente rimproverata: « Ma perché si agita così? È un vegetale, basta solo innaffiarlo» .
A pranzo ieri, come domenica sera a cena, era a capotavola: immobile nella sua speciale carrozzella, gli occhi semichiusi e fissi, il tubicino di plastica chiara e opaca della tracheotomia appeso alla gola. Non ha mangiato, né bevuto con noi: l’aveva già fatto poco prima, col suo sondino nasogastrico attraverso cui scorre, da una sacca, il liquido marrone che è il suo nutrimento.
Danilo ( nome di fantasia, ndr) nacque a posto, un bel pupetto. Otto o nove mesi dopo si manifestarono le prime anomalie cerebrali. Poco tempo ancora e il suo stato crollò. I primi sei anni di vita se ne andarono ciclicamente: quindici giorni a casa e quindici in ospedale. La mamma nell’ 85 non ce la fece più, chiese aiuto. Lo prese Grazia, che lo cura, e coccola, ancora oggi: per tutti gli altri è «sua madre», per lei stessa probabilmente anche. Nel 1993 cominciò la roulette russa: asfissie, arresti cardiocircolatori, terapie intensive, condizioni disperate una dietro l’altra, medici che non volevano perder troppo tempo e troppe energie a rianimarlo. Tentarono di convincerla a lasciarlo morire e fine della triste storia. Ma furono le parole di un primario di pediatria uno schiaffo in faccia a Grazia: «Siete dei fanatici. Per non rinunciare alla vostra missione fate soffrire una persona!» . Quando la morte sembrò aver capito che per il momento non c’era verso, Danilo poté addirittura tornare a casa. Perché qualcosa era intanto e imprevedibilmente cambiato: alcuni anestesisti e il primario della Terapia intensiva - gli stessi che prima l’avrebbero lasciato morire - si erano offerti di seguirlo, gratuitamente, andando loro da lui.
Tre anni fa, poi, altra crisi, altro piede nella fossa, altra corsa in terapia intensiva (dove rimane un mese, più tre in un altro reparto) e viene salvato soltanto dalla tracheotomia. Grazia prende un altro ceffone: qualcuno definisce Danilo «una bambola di stracci» . È stata invece la neuropsichiatra che lo segue a dirle una delle cose più belle che lei ha sentito: «Valgono più le vostre carezze delle medicine che gli do io» . Fa freddo a Canazei, piove e il termometro segna nove gradi: Grazia sistema una coperta addosso a Danilo. «Chi può dirmi che le sue capacità relazionali corrispondano a ciò che capisce o non capisce?» , spiega. E «seppure non capisse, ha respirato il nostro amore. A casa nostra c’è sempre un sacco di gente che viene a trovarlo» .
Ma il punto per lei non è neppure questo. «Chi sono io per stabilire che Dani soffre o addirittura non vorrebbe vivere?» , spiega. «Hai idea di quanto ha saputo fare Dani? Credi sia un inutile vegetale?» . Aspetta un istante la risposta, poi riprende. «Ti racconto un fatto, ma ce ne sono tantissimi. Una ragazza di ventotto anni, che da quattordici era stata fatta prostituire e aveva subìto violenze e umiliazioni di ogni tipo, odiava la vita e aveva tentato di suicidarsi quattro o cinque volte, ma erano riusciti sempre a impedirglielo. Ha conosciuto Dani: te la farò incontrare e coi tuoi occhi vedrai cos’è diventata. Una donna nuova» . Magari non sempre serve saper parlare, muoversi e reagire. Grazia lo ripete: «Dani per la società è un terribile non senso. L’umanità ha tanto studiato e scoperto, ha superato tanti limiti, eppure s’ostina ancora a credere che le potenzialità di un essere umano siano nelle sue capacità di comunicare secondo certi parametri». Deve aver ragione: basta chiudere gli occhi, prendere la mano di Danilo e tenerla, a lungo, nella propria.
Ogni giorno una rete di solidarietà si prende cura del giovane, che viene messo a sedere sulla speciale sedia a rotelle e portato persino a tavola, anche se è il sondino a nutrirlo e idratarlo. Grazia: «Chi sono io per stabilire che soffre troppo e preferirebbe morire? Chi può dire quanto lui sente e capisce dentro di sé?»
Ecco ora l'intervista al primario che voleva lasciarlo morire. Adesso si è pentito, lo visita spesso ed è stato suo padrino di cresima.
«Non so che cosa mi sia scattato dentro». Maurizio Mazzanti nel 1993 era il primario della Terapia intensiva dove portarono in asfissia Danilo: è il medico che lo strappò alla morte. Eppure non l’avrebbe fatto, gli era sembrata una perdita di tempo, quasi un atto di arroganza e cattiveria. Così convocò Grazia in una stanza dell’ospedale e le disse: «Signora, non è meglio lasciare che finalmente la natura faccia il suo corso? Perché accanirsi su un bambino già tanto grave? ». Fosse dipeso da lui, lo avrebbe semplicemente lasciato morire. Grazia non lo permise, ma venne straziata da quella richiesta. Il primario diversi anni dopo è diventato il padrino di cresima di Danilo. Ancora oggi, quindici anni più tardi, quando c’è qualche problema va a casa di Danilo. Gratuitamente. Grazia ormai non lo chiama «dottore», ma solo «Maurizio».
Non sa cosa gli sia scattato dentro. Ma ad un certo punto – ricorda – «tutte le volte che le condizioni di Danilo precipitavano abbiamo cominciato ad affrontarle senza preoccuparci che lui sarebbe rimasto sempre in questo stato e certo non avrebbe mai recitato la Divina Commedia!». Ha sessantacinque anni, il dottor Mazzanti: «Vede, ai tempi della mia infanzia i portatori d’handicap venivano chiamati 'gli infelici', perché si pensava lo fossero. Ho capito via via che l’infelice è invece chi non li considera esseri umani». E in un’intervista di molti anni fa spiegò che «il caso di Danilo ha cambiato il mio essere medico: ho smesso di sentirmi dio».
Va bene, ma come la mettiamo con l’accanimento terapeutico, dottor Mazzanti? «La domanda cruciale per noi medici, alla quale siamo chiamati a dare risposta di fronte ai casi estremi, è proprio questa: salvare la vita di un paziente o impedirgli artificialmente di morire? Due considerazioni. L’accanimento terapeutico è sbagliatissimo. E adesso sono sicuro che la vita di Danilo pur in quelle condizioni aveva un senso».
Ma il punto non è forse garantire o almeno puntare a mantenere la cosiddetta «qualità della vita» dei pazienti? E non è un doveroso atto di pietà far cessare di vivere chi quella «qualità» non l’ha o l’ha persa senza speranze? «Le faccio un esempio – risponde Mazzanti –. Quando qualcuno mostra i primi sintomi dell’Alzheimer noi sappiamo con certezza che entro alcuni mesi o qualche anno quella persona soffrirà e non sarà mai più autosufficiente. A me sembra, da uomo e da medico, che farlo cessare di vivere, più che pietà sia toglierci un problema di torno e toglierlo alla società».
Mettiamo allora da parte la questione dell’autosufficienza e parliamo di dolore: far vivere chi sta soffrendo molto non appare come una specie di facile e superiore arroganza? Alla fin fine il dolore è solo di chi lo prova. «Poniamo pure che sia come lei sostiene – dice Mazzanti – le faccio io delle domande: sbaglio o le sofferenze sono tali e tante che sarebbe impossibile diversificarle? E poi in base a chi o a che cosa si potrebbe classificarle o anche soltanto giudicare insostenibile una sofferenza altrui? E ancora, una sofferenza fisica è per esempio sempre più grande e insopportabile di una interiore? Ma voglio dirle un’altra cosa: ad usare il parametro del 'meglio che muoia piuttosto che soffra' dovremmo eliminare o lasciar andare una tale quantità di esseri umani che credo ne resterebbero davvero pochi...».
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