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Sabato scorso, 9 luglio 2012, al più importante raduno mondiale della comunità LGBT (Global LGBT Workplace Summit) tenutosi – non a caso – a Londra, il colosso informatico Google ha lanciato una personale campagna pro-gay intitolata Legalize Love. Il comunicato ufficiale che annuncia l'evento ha un titolo emblematico: «I diritti LGBT sono diritti umani». Anche l'incipit non scherza: «Noi di Google siamo orgogliosi di essere riconosciuti come leader nella lotta per i diritti della comunità LGBT, anche se c'è ancora molta strada da percorrere in quella direzione».
Legalize Love rappresenta una tappa di tale percorso. Lo scopo ufficiale dell'iniziativa sarebbe quello di promuovere condizioni più sicure per i dipendenti LGBT di Google che si trovano ad operare nelle settanta sedi sparsi in tutto il mondo, e particolarmente in quelle nazioni ove sono in vigore legislazioni considerate omofobe.
In realtà si tratta di una potente azione di propaganda ideologica in favore delle lobby omosessuali. Nel comunicato, del resto, Google non ne fa un mistero. Viene, infatti, ricordata la lunga tradizione di sostegno a tutti i Gay Pride celebrati nel mondo, compresi, ovviamente, quelli di quest'anno, in cui più di 1.500 Googler (così si chiamano i collaboratori di Google) hanno marciato, tra l'altro, anche a Boston, Chicago, New York, San Francisco, San Paolo, Tel Aviv e Varsavia.
Al World Pride di Londra, invece, hanno partecipato tutti i Gaygler (così si chiamano i collaboratori orgogliosamente gay di Google) provenienti da una dozzina di nazioni. Ma il sostegno non si limita certo alla variopinte parate. Sempre nel comunicato, Google rivendica con orgoglio anche il fatto di aver organizzato numerose attività con lo scopo di "educare" la comunità internazionale sui diritti e l'integrazione LGBT, attraverso seminari, conferenze, training svolti presso le sue sedi. Segue un lungo e dettagliato elenco.
Un dato interessante per comprendere la potenza di fuoco finanziaria che sta dietro questa macchina di propaganda, è quello relativo alle società multinazionali che hanno sottoscritto una partnership con Google per essere coinvolti nella campagna Legalize Love. Basta citare due nomi per tutti: Citigroup, la più grande azienda di servizi finanziari del mondo, e Ernst & Young, una delle "Big Four", ovvero una della quattro maggiori reti societarie a livello internazionale che si occupa dei servizi professionali alle imprese (revisione di bilancio, consulenza aziendale, finanziaria, fiscale e legale).
Non tutti i discriminati sparsi sulla Terra, purtroppo, possono vantare simili amici e sponsor. Ne sanno qualcosa i 200.000 cristiani discriminati in Arabia Saudita, Bangladesh, Egitto, India, Cina, Uzbekistan, Eritrea, Nigeria, Vietnam, Yemen e Corea del Nord. Per loro Google non ha ritenuto di organizzare alcuna campagna.
In realtà il coacervo di interessi che sta dietro il più grande Motore di Ricerca della Rete sembra essere attratto solo dai temi che possono definirsi politicamente corretti. Questa di Legalize Love, infatti, non è la prima incursione di Google nel terreno incoerente ed insensato della political correctness. Ricordo, infatti, che quattro anni fa, nell'aprile 2008, affiancai gli amici di The Christian Institute, organizzazione britannica pro-life, nella battaglia legale intentata proprio contro Google a causa del suo rifiuto di pubblicare un comunicato in tema di aborto.
Il gigante di Internet si oppose alla pubblicazione sull'assunto che la sua politica editoriale non riteneva opportuna la diffusione nei siti web di comunicati che «correlassero il tema dell'aborto a considerazioni di natura religiosa». The Christian Institute incaricò i propri legali di promuovere un'azione giudiziaria contro Google sulla base della violazione dell'Equality Act, la legge britannica del 2006 che vieta ogni forma di discriminazione religiosa.
In quell'occasione fu davvero paradossale constatare come Google, che da sempre si proclama impegnato nella diffusione degli ideali di libertà di pensiero e di libero scambio di idee, abbia censurato il comunicato in questione definendone il contenuto «inaccettabile». A seguito di quell'azione giudiziaria, Google concluse una transazione stragiudiziale e accettò di rivedere la propria posizione, autorizzando The Christian Institute e ogni altra associazione religiosa a pubblicare comunicati connessi alle proprie finalità associative in tema di aborto.
Si è dovuto ricorrere ai magistrati per ottenere quel risultato, e per far applicare una legge antidiscriminatoria nei confronti di chi oggi pretende di combattere ogni forma di discriminazione verso gli omosessuali. Le solite immancabili contraddizioni del politically correct.
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