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Quando ho preso in mano i libri della prima elementare del primo figlio erano passati ventotto anni dalla mia, di prima elementare, ma il mio sussidiario me lo ricordavo ancora un po'. Cominciando a sfogliare i testi del futuro scolaro, ricordo che ho pensato: "bene, questi sono i libretti per giocare. Poi ci diranno dove prendere i libri veri". Ci ho messo un po' a realizzare che erano quelli, i libri veri.
La scuola è cambiata incredibilmente in questi anni, e forse, a meno che non si insegni, non si realizza quanto fino a che non ci si trovi ad avere dei figli che la frequentano. D'altra parte anche la scuola che ho fatto io, negli anni '80, era a sua volta completamente diversa da quella – severa, accurata, basata su un largo uso della memoria – frequentata dai miei genitori. A questo punto, nella speranza che i miei professori di latino e greco non stiano leggendo, devo confessare che spesso qualche scolaro di qualche decennio più vecchio mi sorprende con citazioni dalle lingue classiche, brani che io ho dimenticato, e che invece lui ha scolpiti nella mente, immagino, a suon di pomeriggi incollati alla sedia.
Un po' di tempo fa, volendo a mia volta fare alla prole uno dei consueti predicozzi (quella volta l'argomento era "come si scrive"), ho preso un mio vecchio quaderno delle elementari per leggere qualcuno dei preistorici temini ai figli, i quali peraltro sostengono che la mia principale qualità materna sia quella di trovare sempre nuove e fantasiose vie per tormentarli, soprattutto nell'istante in cui l'avventura con gli omini Lego o la partita di calcio-corridoio sta diventando davvero entusiasmante. Comunque, costretti ad ascoltare, i ragazzi – che ovviamente non hanno peli sulla lingua se si tratta di criticarmi – hanno ammesso che sì, sicuramente alle elementari scrivevo in modo ordinato e senza errori di grammatica né di ortografia, ma certo producendo una prosa "altamente soporifera".
I loro temi, invece, sono scritti in modo per me inaccettabilmente disordinato, e grammaticalmente un po', diciamo, creativo, ma sono un fuoco di fila di trovate, spesso pieni di fantasia e personalità. Ogni tanto, se c'è una storia da inventare, fanno capolino come niente il generale Eisenhower, i servizi inglesi dell'MI5, i Beatles, Stalin, Dante Alighieri, e citazioni cinematografiche: riferimenti a mondi di cui io alla loro età probabilmente neanche sospettavo l'esistenza.
Credo che questo fotografi abbastanza fedelmente il cambiamento della scuola e del sistema educativo in generale: i ragazzi di oggi, se seguiti a dovere, sono piuttosto svegli, bombardati come sono di stimoli, informazioni, esperienze, possibilità. Ma anche quando sono seguiti bene, da genitori attenti e presenti, da buoni insegnanti, faticano a gestire tutto. Faticano a essere ordinati, sia con le cose materiali che con le idee, faticano a rispettare semplici consegne per le quali sia necessaria concentrazione, spesso faticano a fare cose con le mani, perché tra scuola, attività pomeridiane, tempo destinato alla tecnologia in senso lato – computer, tablet, cellulari, consolle per i giochi, e anche tv, ormai meno amata dai bambini – le occasioni di esercitare la manualità, magari di fare lavoretti, piccole commissioni in casa, sono sempre di meno.
A me sembra che si sia persa cura, profondità, metodo, capacità di ricordare e di tenere punti fermi, pazienza nel cercare le soluzioni, a favore dell'ampiezza delle conoscenze e della rapidità. Personalmente non credo che sia un bene. Intanto, comunque, è un dato di fatto, un dato di fatto con cui senz'altro bisogna fare i conti: non demonizzando né sottovalutando né esaltando "le magnifiche sorti e progressive", ma prendendo le misure.
Noi in famiglia per esempio abbiamo stabilito due giorni alla settimana in cui i figli possono giocare con i videogiochi, dopo i compiti, in modo che negli altri giorni la discussione sul tema tecnologia non si apra nemmeno. Io e mio marito avevamo infatti notato, prima di questa delibera della suprema autorità famigliare (il padre), che l'estenuante quotidiana contrattazione ("Posso giocare? Quando? Quanto?") era causa di nervosismo pressoché perenne. Ovviamente secondo la nostra prole siamo i genitori più orribili che il pianeta abbia mai visto. Sostengono che nessuno dei loro amici sia sottoposto a simili vessazioni, e a dire il vero non stento a crederlo.
A parte alcune lodevoli eccezioni, infatti, mi sembra che lo stile educativo dei genitori contemporanei sia in linea con quello della scuola: accumulare esperienze, una dietro l'altra, senza un disegno alto, senza un progetto, in una sorta di horror vacui che costringe a riempire tutti gli spazi disponibili. Non sono rari i bambini che – magari dopo il tempo pieno a scuola (quest'anno la prima elementare, nell'unica sezione a tempo ridotto dell'intero quartiere, ha avuto solo diciotto iscritti, mentre oltre cento bambini cominceranno la loro carriera scolastica stando otto ore al giorno sui banchi) – hanno tutti i pomeriggi impegnati tra inglese, tennis, pallavolo, danza, nuoto, chitarra e via dicendo; per invitarne uno a giocare bisogna aspettare che trovi spazio in agenda.
Il discorso qui si fa ampio, e ci sarebbe da tirare in ballo il fatto che tante mamme lavorano e preferiscono (o sono costrette a farlo) subappaltare una buona parte del loro compito educativo; c'è poi la questione della scomparsa del gioco libero per strada, in piazza, al parco, che rende necessario riempire il tempo, inventando magari modi artificiosi per far muovere un po' i muscoli dei bambini; c'è soprattutto il problema che l'educazione sembra decisamente avere perso la bussola che indichi una direzione – tolto Dio dall'orizzonte sono tolti tutti i punti cardinali – e allora si procede sommando esperienze, sperando che la quantità supplisca alla scarsa qualità.
Quando si hanno troppe cose da fare come i bambini di oggi, però, le conoscenze e le esperienze non si fissano bene: non si ha tempo di lasciarle depositare, diventare parte di noi. Se invece che insegnare a scrivere, a leggere e a far di conto la scuola sostituisce le ore di italiano e matematica per proporre corsi di danze popolari e cucina regionale (sic), se al posto della matematica c'è l'ora di tecnologia (a che serve, che già a tre anni sono più veloci di noi, questi bambini digitali?), se poi si corre tutto il pomeriggio tra sport e impegni vari, è dura imparare un metodo, impadronirsi del sapere, organizzarlo in modo personale, lasciarlo sedimentare come solo avviene nei fecondi momenti di noia.
Questo modello didattico si basa sull'idea di fondo che i bambini vadano lasciati esprimere, e non costretti, soffocati da compiti troppo noiosi, mnemonici (benedetta memoria!), vessatori. Un'idea che, oltre impregnare di sé il modo di insegnare, produce una tolleranza molto alta nei confronti dei comportamenti indisciplinati dei bambini e dei ragazzi, ma questo tema, seppur profondamente intrecciato, richiederebbe un capitolo a parte.
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