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Come il peggiore dei luoghi comuni, si rafforza negandolo. Più i gay ripetono «non siamo un potere forte, né occulto», più il mondo etero si convince che «sono una lobby potentissima».
Quando Benedetto XVI, parlando ai nunzi apostolici dell’America Latina nel febbraio 2007, ribadì il ruolo centrale del matrimonio nella società contemporanea, «che è l’unione stabile e fedele tra un uomo e una donna», lamentando come la famiglia «mostra segni di cedimento sotto la pressione di lobby capaci di incidere sui processi legislativi», l’universo gay, sentendosi chiamato in causa, rispose sdegnato che la vera lobby, semmai, era quella vaticana... Ma l’opinione pubblica ebbe confermato, ex cathedra, un sospetto magari tendenzioso ma radicato.
In Italia, per ben note questioni storiche, il «potere» dei gruppi omosessuali è ancora sotto traccia. Ma nel resto del mondo occidentale, soprattutto nei Paesi anglosassoni dove i termini gay e lobby non hanno alcuna connotazione negativa, l’omosessualità, oltre che una ragione di orgoglio, pride, è anche una questione di potere, power.
E se recentemente è stato lo stesso presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, a fare i conti con il peso politico della comunità gay (in occasione del referendum sul matrimonio omosessuale nello stato della California è stato aspramente criticato per le sue affermazioni sul matrimonio come «un’unione sacra, benedetta da Dio, tra un uomo e una donna»), è soprattutto nel mondo degli affari e dell’economia che le quotazioni della «gay corporation» sono in costante aumento: una dettagliata inchiesta pubblicata su Corriere Economia nel marzo 2008 metteva in evidenza la straordinaria capacità da parte dei gay di «fare rete». E sottolineava come, mentre aveva fatto discutere la decisione della banca d’affari Lehman Brothers di dedicare una giornata di selezione a Hong Kong solo per gli omosessuali per accaparrarsi i talenti migliori, per tante società americane la cosa non presentava nulla di speciale.
Negli Usa esiste un’associazione, Out&Equal, con sede a San Francisco – capitale storica della liberazione (omo)sessuale – che promuove il diritto all’uguaglianza degli omosessuali nei luoghi di lavoro. E in tutte le grandi banche, in Ibm, in Johnson&Johnson, esistono gruppi organizzati di «Glbt», l’acronimo utilizzato per riferirsi a gay, lesbiche, bisessuali e transgender. Ed è attraverso organizzazioni come queste che la comunità omosessuale «fa network», cioè lobby.
Una lobby potente e ricca. Anzi, secondo un dossier del 2006 della rivista Tempi, ricchissima: la lobby omosessuale internazionale, che ha le sue roccaforti a New York, Washington, San Francisco e Bruxelles, è sempre più influente. Riceve finanziamenti sia dalle grandi corporation americane, sia dai governi e dalle istituzioni internazionali, spesso sotto forma di donazioni a Ong o fondi per la lotta all’Aids.
Uno tra i più influenti gruppi che appoggiano le battaglie per i diritti delle comunità gay e bisessuali negli Usa come in America Latina e in Europa è quello dei «Catholics for a Free Choice», un’organizzazione che assieme all’«International Lesbian and Gay Association» (presente in 90 Paesi con oltre 400 organizzazioni affiliate) lavora a Bruxelles per far pressione sui legislatori affinché agiscano contro gli Stati che non riconoscono le unioni omosessuali.
Giusto per capirne la potenza economica, il gruppo «Catholics for a Free Choice» dispone di un budget annuale di 900mila dollari ed è finanziata da molti «poteri forti», tra cui la Playboy Foundation, la MacArthur Foundation, l’Open Society Institute del finanziere George Soros e la Rockefeller Foundation. Le medesime fondazioni, poi, con l’aggiunta di colossi dell’industria mondiale – dalla Kodak all’American Airlines, da Apple alla Toyota – finanziano per decine di migliaia di dollari la più importante organizzazione gay con sede a Washington: la «Human Rights Campaign».
E solo per citare un altro colosso, la Sony è tra i fondatori di «Mtv Gay Channel» e sponsorizza gli attivisti pro-nozze gay e pro-aborto della «Rock for Choice» che coinvolge numerose star della musica, dai Red Hot Chili Peppers a Tracy Chapman.
Come fanno notare molti intellettuali, la potenza politico-economica dei gruppi gay è tale da influenzare l’intero ambito sociale, arrivando a imporre le regole del «politicamente corretto».
Esempi? La riforma del diritto di famiglia voluta da Zapatero in Spagna per introdurre il matrimonio tra omosessuali ha cancellato dal codice civile i termini «marito» e «moglie» (sostituiti da «coniuge») e «padre» e «madre» (sostituiti da «genitore»); la Bbc ha diramato una circolare interna in cui bandisce i termini «padre» e «madre»; il ministero della Pubblica istruzione inglese suggerisce agli insegnanti di redarguire i bambini che si riferiscano ai propri genitori chiamandoli «mamma» o «papà» perché ciò farebbe sentire discriminati i bambini cresciuti da coppie omosessuali...
E qualche mese fa, a una domanda della giuria di Miss America sulle unioni gay, Carrie Prejean, rispondendo che «nella mia nazione ideale il matrimonio è tra un uomo e una donna», si è giocata il titolo. (...)
Intanto, anche da noi, sull’onda mediatica del successo di film e serial tv politicamente molto corretti e culturalmente molto queer, c’è chi sta pensando di fondare un partito «altro». All’ultimo Gay Pride, a Genova lo scorso giugno, il presidente di Arcigay Aurelio Mancuso ha ribadito la necessità per i gay di «entrare in politica». Sfilando in piazza per andare ben oltre il semplice concetto di lobby.
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