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Viaggiando attraverso il Giappone rurale, tra piccoli villaggi e partecipando a numerosi matsuri - sagre locali che prendono vita soprattutto durante il periodo estivo - si riscontra la presenza di numerosi viaggiatori solitari. Ci riferiamo a quei ragazzi, mediamente tra i 25 e i 30 anni di età, che zaino in spalla decidono di esplorare il paese nella modalità apparentemente più pratica, in solitudine. Il fatto di per sé non costituisce qualcosa di particolarmente insolito ma se letto alla luce delle nuove tendenze in crescita nel resto del paese può invece essere indicativo della diffusione tra le nuove generazioni di uno stile di vita molto particolare, tutto rivolto alla ricerca di attività da svolgere in solitudine.
Secondo gli analisti giapponesi addirittura un terzo di tutte le abitazioni in Giappone sarebbe occupato da una sola persona. Se il profilo demografico del paese è questo non ci si può sorprendere se da qualche anno è in forte crescita un mercato orientato sui single, anzi sarebbe più esatto dire su "coloro che sono soli": qui ci si riferisce al neologismo giapponese inventato proprio per descrivere questo tipo di fenomeno, ovvero ohitorisama.
PERFINO IL KARAOKE È UN GIOCO CHE SI FA DA SOLI
Il karaoke, per molti aspetti l'attività sociale archetipica nel Sol Levante, è un esempio calzante. Sei anni fa, la catena di karaoke Koshidaka si rese conto che circa il 30 per cento dei suoi clienti preferiva cantare in piena solitudine. Se si pensa che la macchina del karaoke fu inventata negli anni '70 come alternativa al classico gioco da tavolo, ovvero un mezzo per stimolare alla socializzazione durante cene o festeggiamenti, è evidente che parliamo di un vero e proprio mutamento antropologico in corso nella gioventù giapponese, come quando dal computer di casa, uno per tutta la famiglia, si è passati al telefonino personale.
Ecco allora che l'azienda Koshidaka colse al volo la nuova tendenza in atto e prese a istallare degli uno-kara, ovvero minuscole cabine per "cantanti solisti". Molti clienti che si presentano da soli ai karaoke hanno affermato che il piacere di cantare da soli è derivato dal fatto che ci si può sottrarre al "fastidio" di dover cantare dei pezzi che altri hanno scelto. In questo senso la determinazione a cantare da soli sembra la conseguenza di un'incapacità al compromesso, che è invece il requisito fondamentale per qualsiasi tipo di esperienza di condivisione.
Gli indizi della presenza di ohitorisama sono ovunque in Giappone, dai parchi tematici che permettono ai single di saltare la fila in certe giostre ai negozi di alimentari che vendono condimenti e verdure in singole porzioni, mentre le agenzie di viaggio hanno sempre pronti itinerari mirati al viaggiatore solitario. Non mancano le catene di ramen (tagliatelle) dove è possibile gustare un pasto senza quasi venir disturbati da alcuna interazione umana. I clienti ordinano dai distributori automatici e poi si siedono in una cabina accuratamente separata dalle altre con spesse lastre di legno. Gli ordini vengono poi passati attraverso una piccola fessura da squadre di cuochi i cui volti non verranno mai scorti.
QUELLI CHE PREFERISCONO LA SOLITUDINE
Ormai la "società super-solista" è diventata una realtà talmente vasta che i guru del marketing continuano a sperimentare nuove offerte. I sondaggi confermano la tendenza: i consumatori giapponesi, specialmente i più giovani, valutano il tempo trascorso da soli come più prezioso rispetto al tempo trascorso in famiglia o con gli amici. I dati ufficiali mostrano come il rapporto tra genitori e figli, in termini di tempo passato insieme, si stia gradualmente riducendo.
Nel 1980 in Giappone, solo un uomo su 50 all'età di 50 anni non era sposato, mentre le donne solo una su 22. Quel rapporto è ora uno su quattro e uno su sette rispettivamente, proprio mentre il Giappone è alle prese con una popolazione che invecchia rapidamente, con quasi il 28 per cento dei giapponesi con un'età superiore ai 65 anni.
Ma il sondaggio più interessante, e forse quello più eloquente, non si riferisce ai single o a coloro che preferiscono la vita solitaria, si riferisce alle coppie. Secondo il sondaggio, fatto da una grande compagnia di assicurazioni, per il 70 per cento delle coppie intervistate la cosa più importante in una relazione non è la fedeltà, e neppure il rispetto reciproco, è la comunicazione. Il sondaggio evidenzia che i picchi di tensione emotiva e ansia nella coppia si aggravano quando non si ha a disposizione il tempo materiale per parlare.
Sarebbe fin troppo scontato puntare il dito sul ritmo frenetico della vita moderna e l'uso delle nuove tecnologie come cause dirette di uno scompenso comunicativo, ma è certamente innegabile che ormai anche in coppia, tra gli orari di lavoro che non diminuiscono e la presenza individuale sui social media che invece è in aumento, il tempo per comunicare veramente è sempre più ridotto.
Nota di BastaBugie: Giuliano Guzzo nell'articolo seguente dal titolo "Single, la solitudine certifica l'autopsia sulla famiglia" spiega che anche in Italia non possiamo essere allegri. Anche noi rischiamo di fare la fine del Giappone. Lo rivela il Rapporto Censis 2018 che ha il sapore di un referto autoptico. Matrimoni in calo del 17%, single a quota 5 milioni. Ma il problema non è solo economico. E' una fotografia impietosa sulla solitudine che evidenzia la sfiducia nel futuro e l'assenza di qualunque dimensione spirituale.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 8 dicembre 2018:
Lo chiamano Rapporto 2018 sulla situazione sociale del Paese, ma in realtà l'ultimo documento diffuso dal Censis ha più il sapore di un referto autoptico. Quel che si sta spegnendo, in Italia, pare infatti molto di più di quel che ancora è vitale. E da questo punto di vista, nella fotografia scattata dal noto istituto di ricerca socio-economica che dal 1964 radiografa il Belpaese, l'ambito dove il bianco e nero stanno soppiantando i colori è, anzitutto, quello familiare. I dati sono drammaticamente chiari: nell'arco di un decennio, dal 2006 al 2016, i matrimoni sono calati del 17,4%, con un vero e proprio naufragio del rito religioso (-33.6%), un aumento delle secondo nozze (+19,1%,), delle separazioni (+14%) e dei divorzi, lievitati addirittura del 100% in 10 anni.
Ma il vero dato, quello che dovrebbe dare più da pensare, è quello dei single non vedovi, cresciuti del 50,3%. Perché questa percentuale è tanto importante? Ma perché conferma un aspetto troppo a lungo taciuto eppure fondamentale: la famiglia non declina in favore delle «nuove famiglie». Infatti, per quanto le convivenze e le coppie Lgbt risultino statisticamente in espansione, alla crisi della famiglia corrisponde in primo luogo più "singletudine". Per un motivo semplice: alla cellula fondamentale della società, alla vituperata famiglia tradizionale, non v'è alcun equivalente funzionale. Non può cioè essere rimpiazzata in alcun modo; e questo, attenzione, non vale solo per l'Italia, l'Europa o l'Occidente di oggi, essendo una verità che permea la civiltà umana da sempre, dato che nessuna comunità ha mai potuto a fare a meno della famiglia.
Peccato però che di questa verità fondamentale, come si accennava poc'anzi, si preferisca non parlare, col solo risultato che la "singletudine" - che è altro non è che il nickname della solitudine - dilaga, tanto che oggi accomuna più di 5 milioni di persone. Una marea. Di qui l'inevitabile interrogativo: e adesso, che fare? Come ripartire da una situazione del genere? Se si riconosce nella crisi della famiglia un problema (non è affatto scontato), gli atteggiamenti possibili sono essenzialmente di due tipi. Un primo tipo di risposta, che purtroppo da anni affascina ampi settori del mondo cattolico, è di tipo politico e sociale.
In estrema sintesi, il ragionamento è il seguente: i giovani non si sposano più? Colpa del precariato lavorativo e di quel sospirato «posto fisso», per dirla con Checco Zalone, che tarda ad arrivare, quando ancora arriva. Le culle sono sempre più vuote? Beh, colpa del quoziente familiare, eterna promessa politica mai davvero realizzata. Si tenta cioè di ridurre - in una prospettiva non solo materiale ma, quel che è peggio, materialistica - la crisi odierna a fattori di ordine economico e finanziario, i quali certamente un ruolo lo giocano, ma che sarebbe incauto elevare a cause esclusive dello sconfortante scenario odierno.
Ben più saggia appare invece la seconda interpretazione della crisi della famiglia, che è quella che colloca i malanni che ammorbando il matrimonio in un'ottica valoriale e, meglio ancora, spirituale. Lo stesso vertiginoso calo del rito religioso di cui si parlava poc'anzi, del resto, va in questa direzione e ci spiega - per quanto, lo si ripete, i fattori economici un peso l'abbiano - che il virus che sta piegando la famiglia abbia un'origine lontana. E in questo senso lo stesso calo delle nascite è molto istruttivo dal momento che risulta un fenomeno venutosi a generare, in Italia, allorquando venne introdotto il divorzio. In altre parole, la crisi della famiglia è diretta conseguenza della scomparsa di quella cultura della famiglia sulla quale tante illuminanti riflessioni ci ha lasciato san Giovanni Paolo II.
Se non capiamo questo, se ci ostiniamo a sperare in fattori di ordine materiale, continueremo a tenere lontano dai nostri occhi il cuore del problema, che non è neppure il venir meno della famiglia ma di quella fede su cui tutto si regge o crolla. Non è un caso che, fra i dati rilevati dal Censis, vi sia un'allarmante crescita della sfiducia nel futuro. E non potrebbe essere altrimenti, dato che la fiducia - senza che alla base vi sia una fede - alla lunga viene a mancare. A dirlo, questo, non è il Censis ma la bimillenaria tradizione della Chiesa. Se solo si avesse la pazienza di riscoprirla e il coraggio di tornare a viverla.
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