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« Torna agli articoli di C
Nel paragrafo 30 della magnifica enciclica Spe salvi, firmata venerdì scorso, Benedetto XVI scrive che «l’uomo ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia bisogno di altre speranze». Questa soddisfazione, però, è solo temporanea, e ciò verso cui ci sospingeva la nostra speranza finisce per deluderci, più o meno cocentemente: «Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre».
Il Papa ci invita così a riflettere sul sentimento della delusione. L’uomo, in effetti, lo può sperimentare sotto due forme. C’è la delusione per uno scopo mancato: speravo di ottenere un buon lavoro e non l’ho avuto, speravo di avere una bella casa e non l’ho posseduta, di essere amato e non sono stato amato..., e perciò sono insoddisfatto. Ma c’è anche la delusione per uno scopo ottenuto, quella che proviamo perché il suo conseguimento non ci soddisfa come ci eravamo aspettati: speravo di ottenere un buon lavoro e l’ho ottenuto, speravo di avere una bella casa e l’ho posseduta, di essere amato e sono stato amato..., eppure, ogni volta, contrariamente alle mie speranze, pur avendo investito moltissime energie per cogliere questo obiettivo, non sono appagato.
Questo secondo tipo di delusione ci consente di comprendere che l’oggetto del desiderio umano non è rinvenibile in alcuna esperienza finita. Infatti quando raggiungiamo i nostri obiettivi non li apprezziamo più, e desideriamo altre cose.
In questi momenti sperimentiamo che ciò che volevamo veramente non l’abbiamo raggiunto.
Potremmo allora disperare, pensando che l’uomo non possa mai conseguire una soddisfazione definitiva e piena. Ma, al contrario, questa delusione va interpretata diversamente. Invece di farci disperare per l’insaziabilità dell’uomo, essa dev’essere vista come l’indizio che è un’altra la felicità conforme agli esseri umani, che è un’altra la speranza che non delude (Rm 5, 5).
Così, questa delusione mostra che siamo perennemente insoddisfatti non perché abbiamo conseguito questo o quel bene invece di un altro, bensì per via della natura finita di tutti questi beni, incapace di appagare il desiderio umano. Come ha detto Simone Weil «quaggiù ci sentiamo stranieri, sradicati, in esilio; come Ulisse, che si destava in un paese sconosciuto dove i marinai l’avevano trasportato durante il sonno e sentiva il desiderio d’Itaca straziargli l’anima».
Allora – prosegue il passo dell’enciclica – «si rende evidente che può bastargli [all’uomo] solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere».
Nel cuore dell’uomo alberga, insomma, un desiderio radicale che non è il desiderio di qualsivoglia bene finito bensì di un Bene Infinito. L’esperienza di delusione dello scopo conseguito ci fa così comprendere che la soddisfazione del nostro desiderio può darla solo la comunione definitiva e totale con Dio. Solo quella totale, non quella provvisoria e parziale che ci è data nel corso della vita.
Quale sia Itaca per noi ce lo indica Agostino (nel celeberrimo incipit
delle Confessioni, che sicuramente il Papa aveva ben presente quando ha scritto questo paragrafo 30): «Ci hai fatti per te [o Dio], e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in Te».
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