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Pare che i politici abbiano individuato la crociata di cui l’Italia di oggi ha bisogno: quella contro il vino. Sì. Siamo in piena crisi economica, inondati di cocaina (specie nei quartieri alti) e altre sozzerie (nei bassifondi), siamo rincoglioniti dai rumori, dai media, nevrastenici e pieni di ossessioni, ansie e paure, ci riempiamo di psicofarmaci, ma il Nemico è diventato lui: il frutto della vite.
E il Parlamento pare stia per dichiarare guerra al vino. Non ai superalcolici – come qualcuno sostiene – ma proprio al vino perché il tasso alcolico imposto per legge a chi guida l’automobile non è tarato sul superalcolico bevuto al pub o in discoteca, ma sul bicchiere di vino bevuto a cena. Tanto che, dopo aver già fissato un limite estremo come lo 0,5 g/litro, assurdo e proibitivo, ora si sta tentando addirittura di imporre lo 0,2 e il “tasso zero”. Dunque guerra totale al vino. Tolleranza zero.
Poco importa, a questi legislatori, che, secondo le statistiche, gli incidenti stradali provocati da abuso di alcol siano una percentuale piccolissima. Stando ai dati Aci-Istat nel 2007 si sono avuti 230.871 incidenti, con 5.131 morti e 325.850 feriti. Ebbene il 93,5 per cento di tali incidenti sono stati provocati da errori di guida (come il non rispetto della precedenza, la guida distratta e la velocità). La voce “stato psico-fisico alterato del guidatore” incide solo per il 3,1 per cento dei casi e comprende l’assunzione di sostanze stupefacenti, il malore, il sonno e infine l’ebbrezza dal alcol. Ciò significa che appena il 2 per cento dei casi è addebitabile a chi ha alzato troppo il gomito e si tratta quasi sempre di superalcolici e di alcolisti veri e propri, non certo del consumo normale e abituale del vino nel corso dei pasti. Dunque il vino (il vino che fa parte della nostra civiltà e della nostra cultura) è pressoché irrilevante fra le cause di incidenti. E’ insomma innocente. Eppure è proprio contro il vino che si bandisce la crociata. Dimenticando, per fare un esempio, che il 5,5 per cento degli incidenti sono provocati dalle pessime condizioni della strada e il doppio dall’uso del cellulare senza auricolare. Ma questo non suscita impressione nel Palazzo.
Il limite attuale, lo 0,5 g/litro, dicevamo, è già proibitivo. Basta cenare assaggiando due bicchieri di vino e si è fuorilegge. Praticamente, ha lamentato ieri il ministro Zaia, questa norma “ha fatto sparire le ordinazioni al ristorante di vini da dessert e produzioni come le grappe”.
Stando così le cose non si capisce per quale misterioso motivo in Parlamento si sta tentando di portare quel limite dallo 0,5 allo 0,2 o addirittura allo zero assoluto. Perché? Risulta forse agli onorevoli legislatori che lo 0,5 si sia rivelato insufficiente e che siano accaduti una quantità di terribili incidenti provocati da gente che aveva un tasso alcolico nel sangue compreso fra lo 0,5 e lo 0, ovvero gente che a cena aveva bevuto appena un bicchiere di vino? No. E’ una casistica inesistente. Ma allora che senso ha abbassare il limite dallo 0,5 allo 0,2 o addirittura allo 0 assoluto? Nessun senso. E nessuna efficacia. Come il drastico 0,5 non ha avuto alcuna efficacia nella prevenzione degli incidenti, non l’avrà nemmeno il suo inasprimento.
In compenso però assesterà un colpo micidiale alla nostra produzione vitivinicola, già provatissima da queste normative e dalla crisi economica che si sta facendo sentire nel settore. Si deve infatti sapere che l’Italia è fra i maggiori produttori europei e mondiali di vino. Ha un’offerta di altissima qualità con 477 vini Doc e Docg (il settore agricolo, che ha un milione di imprese, produce nel suo insieme un valore di 45 miliardi di euro l’anno, secondo solo al comparto manifatturiero).
La crescita della qualità del vino, a scapito della quantità, in Italia è andata di pari passo con una crescita culturale. Infatti il consumo di vino pro capite è passato dagli antichi 120 litri agli attuali 45. Perché cento anni fa il vino, di qualità bassa, era tracannato, un po’ per stordirsi, così come oggi una gioventù ignara del senso della vita ricorre alle droghe o ai superalcolici o al chiasso delle discoteche per lenire la disperazione e la solitudine.
Oggi invece la nostra gente ha imparato a gustare il vino cercando la qualità del sapore e non la quantità che riempie la pancia. Un giorno sentii dire da un vero maestro di vita, don Luigi Giussani, che il vino non si beve per sete, ma per gusto, per assaporare la bontà della creazione. Infatti è fiorita una vera cultura del vino e un’educazione al gusto. Corsi, guide, enoteche. Degustazioni spesso associate alla musica e alla letteratura. O ai prodotti tipici. Oltretutto la produzione vitivinicola è anche quella che, da secoli, ha dato forma e bellezza alle nostre campagne – penso in particolare alla Toscana – e fa letteralmente parte del paesaggio come le pievi romaniche, i borghi, i casolari e le città turrite. Ha quindi una ricaduta anche nel turismo.
Michele Satta, bravissimo produttore della zona di Bolgheri, che esporta i suoi fantastici vini anche in America, in Cina e in Australia, vede in questa assurda mentalità non solo un suicidio economico, ma anche un suicidio culturale: “si va verso una vera e propria criminalizzazione del vino e del suo consumo. E’ una regressione culturale che azzera millenni di civiltà senza alcun motivo fondato, senza alcuna ragione”.
In effetti di questo passo si rischia di considerare il vino, che è una ricchezza culturale ed economica, alla stregua di un vizio, come il fumo. O peggio alla stregua delle sostanze allucinogene. Si finirà per considerare le nostre belle vigne variopinte quasi come le piantagioni di oppio dell’Afghanistan? Vogliamo sperare proprio di no (il Parlamento ascolti ministro Zaia).
Il vino ha accompagnato letteralmente la civiltà umana, tanto che la Bibbia (Gen. 9, 20-27) fa risalire la scoperta del processo di lavorazione del vino addirittura a Noè. Il nome stesso, “vino”, pare venga dal verbo sanscrito “vena”, che significa “amare” da cui infatti proverrebbe anche il nome latino della dèa dell’amore, Venere. Il vino fa parte della civiltà ebraica, greca e romana e la sua gaia bontà tracima nella letteratura di tutti i tempi.
Ma soprattutto ha assunto un significato sacro nella storia cristiana. Il primo miracolo di Gesù, registrato nei Vangeli, è quello del vino alle nozze di Cana. Il vino è il segno di quella convivialità fraterna e festosa del banchetto a cui Gesù stesso ha paragonato addirittura il segno dei Cieli. Il vino fu poi al centro di quella drammatica “ultima cena” nella quale egli istituì il sacramento della sua presenza tangibile nella storia: “sarò sempre fra voi, fino alla fine dei tempi”. I segni scelti da Gesù furono proprio il vino e il pane, segno del suo darsi in pasto e bevanda agli uomini per abbracciarli, sostenerli, salvarli e divinizzarli.
La millenaria liturgia della Chiesa in qualche modo ha una sua mistica espansione nelle nostre campagne dove in giugno si alterna l’oro dei campi di grano al verde dei filari di vite, come se la terra stessa, fecondata dal lavoro umano, celebrasse l’offerta del cosmo intero a Dio, nei segni eucaristici del pane e del vino.
Benedetto XVI ha detto una volta: “Il vino esprime la squisitezza della creazione, ci dona la festa nella quale oltrepassiamo i limiti del quotidiano: il vino ‘allieta il cuore’. Così il vino e con esso la vite sono diventati immagine anche del dono dell'amore, nel quale possiamo fare qualche esperienza del sapore del Divino”.
Devo questa citazione a Michele Satta che peraltro – lavorando nelle terre del Carducci – espone nel suo sito anche i versi del poeta mangiapreti, dimostrando che i filari di vite mettono d’accordo tutti: “Della natura tua, forte e cortese,/l'ombra restò nel memore pensiero,/ come il tuo vino, o mio dolce paese,/ il mio verso fervea gentile e austero”.
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