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La vita e la morte di Eluana ci riguardano tutti, non perché siamo cattolici o non cattolici, ma perché siamo uomini. A metterla sotto i riflettori dei media e a farla diventare oggetto di scontro politico non è stato chi è a favore della vita (come le suore misericordine di Lecco che hanno accudito Eluana come una figlia per tanti anni, dopo che la madre si era gravemente ammalata), ma chi ha voluto farne l'emblema e la testa di ponte per un cambiamento delle leggi in senso eutanasico. Ma da allora è diventata una questione di civiltà che ci riguarda profondamente. Per questo il nostro giornale se ne è occupato con passione e per questo la sua morte non chiude la riflessione, anzi ci sprona a continuarla, non solo e non tanto per aggiungere note di indignazione e di sconcerto per le modalità e le conseguenze di questa sentenza di morte eseguita senza spazio per moratorie di alcun genere, quanto piuttosto per documentare come la vita, anche la più fragile e difficile, possa essere piena di significato. Qualche idea già l'abbiamo, ma ne riparleremo. Ora ci tocca tornare su alcuni “buchi neri” di questa vicenda. Prima di tutto la questione del dubbio. Molti, a partire dal medico che ha presieduto allo spegnimento di Eluana, hanno detto e ripetuto che la ragazza «era morta 17 anni fa» e che quel che sopravviveva era «il suo corpo, non la sua persona». Ma lo stato vegetativo permanente in cui si trovava la Englaro non è la morte cerebrale -bisogna continuamente ripeterlo- e la scienza medica nutre dubbi sia sulla reversibilità di questo stato sia sul tipo e sul grado di coscienza e sulla percezione del dolore da parte di queste persone disabili. Ma dov'è finita la “cultura del dubbio”? Se c'era il dubbio come si poteva sentenziare che Eluana non avrebbe «sentito né capito nulla» perché era «un corpo non una persona»? Eluana in realtà era una persona disabile, che conservava tutte le sue funzioni vitali (compresa la fertilità!): solo doveva dipendere dagli altri per bere e per mangiare, così come accade per un bambino piccolo. Vogliamo tornare alle civiltà di oltre duemila anni fa, quando il padre aveva diritto di vita e di morte sui figli? Un'altra questione: da quindici anni un gruppo di intellettuali ha usato il dramma di Eluana per arrivare alla «rottura dell'incantesimo della sacralità della vita», come ha scritto lunedì su “L'Unità” il bioeticista Maurizio Mori, salutando la morte della ragazza come «qualcosa di analogo alla breccia di Porta Pia». Questo, solo questo, è stato il vero “sciacallaggio” sul corpo di Eluana. Un altro bioeticista, l'americano Wesley Smith (laico e di sinistra), ha affermato che rimuovere acqua e cibo a un paziente profondamente disabile significa attraversare il confine che può condurre i medici a stravolgere la medicina ippocratica del “non uccidere”. Stiamo esagerando? L'eventualità è lontana? «Avviene in Olanda da trent'anni», ha aggiunto Wesley, dove «i bambini nati con disabilità e i malati terminali vengono messi a morte dai propri medici» (l'eutanasia in Olanda è legge). D'altra parte, non è forse lo stesso Mori che ha scritto in un libro su Eluana che il caso Englaro «è importante per il suo significato simbolico», in vista di «abbattere una concezione dell'umanità e cambiare l'idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria che affonda le radici nell'ippocraticismo e anche prima nella visione dell'“homo religiosus”, per affermarne una nuova da costruire». Non so a voi, ma a chi scrive sono progetti che mettono i brividi, e uno dei meriti di Eluana è di averli fatti venire a galla e di costringerci a guardarli in faccia. Un'ultima considerazione è sul padre di Eluana, Beppino Englaro. Resto convinto che cercando lumi nella compagnia di quelle suore misericordine che amavano Eluana anche nella sua terribile condizione, piuttosto che nella compagnia dei Mori e dei Pannella, avrebbe potuto tentare di sostenere questa grande prova, anziché cercare di eliminarla. Ma qualcosa di grande va riconosciuto in un uomo che, dopo l'incidente che ferì la figlia, non ha più tolto lo sguardo da quel mistero di dolore e di assurdità, senza accettare nessuna distrazione dal perseguimento dell'obiettivo di cancellarlo in qualche modo, a tutti costi. E mi ha colpito quel che ha detto Enzo Jannacci (il cantautore, da noi riportato sabato sul giornale): «ci vorrebbe una carezza del Nazareno, avremmo così tanto bisogno di una sua carezza»; e ancor più, mi ha colpito, che su un volantino di cattolici quella carezza sia stata accostata a ciò che il Nazareno duemila anni fa, lui stesso con le lacrime agli occhi, disse a una vedova che aveva appena perso il figlio: «Donna non piangere!». E oggi, lo ripete (vorremmo ripeterlo) a Beppino Englaro.
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