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« Torna agli articoli di Carlo Bellieni
L'Organizzazione mondiale per la sanità prescrive un'ecografia per gravidanza, il sistema sanitario italiano tre, e le coppie italiane ne fanno 7-8 per gravidanza, secondo il più recente rapporto dell'Istituto superiore di Sanità. Dato confortante perché segnala una alta cura della gravidanza? Forse sì, ma forse segnala anche una ipermedicalizzazione di cui potremmo fare a meno. Nel Nord Europa le ecografie non sono così frequenti. In Canada se ne fanno in media 3,1 e in Francia 5. Ma anche sul versante dell'amniocentesi il record è italiano: qualche anno fa la Francia si preoccupava per avere il «record mondiale di amniocentesi» avendo raggiunto l'11% delle gravidanze, contro il 5% inglese e l'1,7% americano.
Oltralpe non sapevano che in Italia si viaggia sul 20%.
Sembra strano che in tempi di spending review su questi eccessi non vi sia una sforbiciata; forse perché sarebbe estremamente impopolare dissuadere i futuri genitori dal correre a individuare minime imperfezioni fetali (cosa che è ormai routine anche quando non ha finalità curative) o da 'richieste sociali', magari dispendiose, che vanno a rompere qualche supposto limite etico.
Wohlfram Henn ha scritto in un articolo intitolato Consumismo nella diagnosi prenatale:
«L'abuso di test genetici per la selezione fetale in base al sesso è già un grave problema. Ora nell'epoca della commercializzazione della genetica umana, è banale pensare che nuove possibilità di selezione prenatale più sofisticate non agirebbero secondo la legge della domanda e dell'offerta». Questo sguardo verso uno scenario futuro interessa anche il presente.
Perché, come recita un proverbio inglese, «per chi ha un martello, tutto diventa un chiodo»: l'alta diffusione della diagnostica prenatale per ricercare anche malattie non curabili (e non letali) è davvero dovuta a una richiesta delle donne o a una pressione sociale, per cui si fa – per routine – anche se non serve a curare? E quando si scopre un'anomalia non curabile (e non letale), dove porta la pressione della 'società della perfezione'? La sociologa Carine Vassy, dell'Inserm di Parigi spiega in un suo studio recente che la richiesta delle donne non è mai stata presa seriamente in considerazione per scegliere se far entrare o meno la diagnosi prenatale nella routine in Francia.
Insomma, il trend è in ascesa, i protocolli internazionali dicono che si sta eccedendo, ma cosa si può di fronte all'ipermedicalizzazione della gravidanza (in cui il medico sente la pressione di fornire ogni dettaglio del feto) e al dramma di una società imbevuta d'ansia, come quella dei genitori che non permettono a se stessi di pensare che il figlio possa essere qualcosa meno che perfetto, perché respirano un clima di competizione e di abbandono verso chi ha bisogno di un anche minimo aiuto?
La diagnosi prenatale curativa è un bene, ma l'eccesso in diagnosi prenatale è uno spreco di denaro, un andare a braccetto tra medicina e leggi del mercato, un peso eccessivo accordato alla curiosità o, forse soprattutto, all'ansia indotte dall'ambiente sociale. Questo succede quando in una società basata sulla famiglia e sulla solidarietà – come era l'Italia fino a qualche decennio fa – vengono picconate le certezze fino a farle crollare: non si accetta più nulla che non sia pianificato e che costi una fatica eliminabile. Ci si butta alla ricerca di una medicina che – moltiplicando gli esami – cancelli le incertezze; ma aggiungere esami a esami non sempre dà la risposta voluta, e qualche volta aggiunge incertezze a incertezze, mostra piccole imperfezioni o anomalie non previste, che si potrebbero anche accettare o addirittura curare dopo la nascita, ma che scoperte in 'tempo utile' possono indurre in seria tentazione di rinunciare a quel figlio.
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