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« Torna agli articoli di Chiara Chiessi
Una ragazza belga di 23 anni di nome Kelly, ha dichiarato al Daily Mail che vuole porre fine alla sua vita con l'eutanasia, a causa di alcuni problemi mentali da cui è affetta. La ragazza infatti, «ha tentato il suicidio, è stata ricoverata in ospedale, ha sofferto di disturbi alimentari ed ha iniziato a praticare l' autolesionismo».
Lei stessa ha affermato: «Era più sopportabile il dolore da autolesionismo che il dolore alla testa. Almeno il dolore da autolesionismo scompare, a differenza del dolore all'interno che è sempre presente».
Sempre secondo il Daily Mail: «I pazienti con problemi mentali rappresentano circa il tre per cento delle 17.000 persone uccise da quando la legge è stata modificata in questo paese di 11 milioni di cittadini. Ci sono stati 2.357 decessi l'anno scorso - dieci volte in più rispetto al primo anno in cui l'eutanasia era legale in Belgio...».
Kelly apprese che era possibile richiedere l'eutanasia da uno psicologo dell'ospedale dove si trovava in cura. Nonostante i suoi piani già definiti, non ha mai raccontato ai genitori con cui vive, alla sorella gemella o ai fratelli più piccoli, di voler porre fine alla sua vita, fino a quando non ha trovato psichiatri che le hanno confermato che il suo dolore mentale è "insopportabile e incurabile".
Quando finalmente lo disse alla sua famiglia, racconta: «Mio padre era molto scioccato, piangeva e l'ho stretto a me. Stavo quasi piangendo anch'io. Era molto commovente ma anche doloroso vederlo così».
Come hanno sottolineato molti psichiatri, le condizioni delle persone che soffrono di problemi di salute mentale può migliorare nel tempo con le cure. Offrire la morte come "soluzione" alla sofferenza, non allevia l'angoscia mentale del malato, ma semplicemente pone fine alla sua vita.
Non c'è da stupirsi sull'impennata di persone che richiedono la "dolce morte": una volta che un Paese (come il Belgio, in cui per di più non si fa distinzione tra dolore mentale e fisico) accetta l'idea che alcune vite non sono degne di essere vissute, ecco che la morte si manifesta come volontà delle persone più fragili, che soffrono molto e lo Stato preferisce "toglierle di mezzo" piuttosto che curarle.
Un caso simile era capitato a Noa Pothoven [leggi: NOA, LA 17ENNE OLANDESE CHE HA CHIESTO E OTTENUTO L'EUTANASIA, clicca qui, N.d.BB]. [...]
Non a caso, Noa Pothoven aveva denunciato il fatto che nel suo Paese non esistevano cliniche specializzate nel curare disturbi mentali nell'età adolescenziale.
A queste povere vittime, la morte dunque appare come unica soluzione.
Nota di BastaBugie: Andrea Zambrano nell'articolo seguente dal titolo "Eutanasia, la campagna pro life può proseguire" parla dell'udienza del Gran Giurì dell'Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria chiamato a rispondere sulla liceità morale dei manifesti di Pro Vita & Famiglia.
Ecco l'articolo completo pubblicato sul sito del Timone il 5 dicembre 2019:
Nel settembre scorso avevano mandato in isteria le anime belle del politicamente corretto. Ma i manifesti di Pro Vita & Famiglia in realtà non violavano nessun codice di regolamentazione pubblicitaria e men che meno, offendevano la morale o il buongusto. Certo, forti erano forti, ma proprio questo era l'intento di Toni Brandi e Jacopo Coghe che avevano concepito la campagna proprio per scuotere le coscienze sul tema eutanasia. «Marta, 24 anni, anoressica, potrà farsi uccidere. E se fosse tua sorella?», «Alessandro, 18 anni, bullizzato. Potrà farsi uccidere». E così via, il tutto accompagnato dall'hastag #noeutanasia per una campagna che invece è stata fin da subito osteggiata.
Invece la parola definitiva è arrivata martedì sera al termine dell'udienza del Gran Giurì dell'Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria chiamato a rispondere sulla liceità morale di quei manifesti. Qualche tempo prima era successo che all'IAP erano giunte diverse segnalazioni di protesta che avevano costretto il comitato di controllo ad aprire un fascicolo e poi a trascinare la Onlus romana davanti ai giudici.
I quali, martedì hanno sostanzialmente dato il via libera ai manifesti che ora potranno essere affissi in tutt'Italia. Pro Vita & Famiglia canta vittoria: «Ha vinto la verità, i nostri manifesti sono legittimi», ha spiegato Coghe dopo l'udienza che si è svolta a Milano. «Contraria al decoro e al buon senso è la dittatura del politicamente corretto invece e di chi vuole violare il diritto inalienabile alla vita. Ora si sappia che le nostre affissioni di manifesti-denuncia a Roma e Milano e poi in altre città italiane erano regolari, si tratta di una comunicazione onesta, veritiera e corretta caro Cappato e cari radicali e non c'è una "esagerazione della problematica sociale" né si tratta di "richiami choccanti», hanno ribadito.
Il giorno dopo al Timone, Coghe non ha nascosto la sua soddisfazione: «I testi che abbiamo mostrato sono testi che ricordano un pericolo reale: quello che potrebbe accadere se il nostro Parlamento legiferasse in materia di eutanasia e suicidio assistito. E' una prospettiva che in altri Paesi, purtroppo, ha già preso forma con l'auto-eliminazione dei depressi, dei fragili, dei deboli dalla società".
Non restano che le scuse secondo Coghe, da parte di quei parlamentari e i sindaci dei Comuni «che ci hanno fatto una guerra ideologica impedendoci il diritto di opinione e la libertà di pensiero».
C'è poi un dettaglio che rende ancora più dolce la vittoria pro life: «È la terza volta che ci chiamano in causa con l'Istituto di Autodisciplina pubblicitaria - ha proseguito Coghe -. La prima è stata con la campagna di CitizenGo sul Bus della libertà nel quale avevamo dato "scandalo" dicendo che "i bambini sono maschi e le bambine sono femmine". La seconda era una campagna di affissioni contro l'utero in affitto in cui dicevamo che "due uomini non fanno una madre" nella quale raffiguravamo dei bambini sul carrello della spesa. Entrambe le vote ci hanno dato ragione». E con questa fanno tre.
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