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Se potessi mangiare, per dire, cartoncino bristol, potrei fare la spesa una volta ogni due mesi, cucinare sempre meno e con gli avanzi fare i lavoretti di Natale. Purtroppo, infatti, ho la sensibilità gastronomica di una ruspa e il cibo per me è principalmente una massa da ingerire rapidamente per generare calorie con cui fare le cose e soprattutto curarmi delle persone che mi stanno a cuore. Questo a parte alcuni miracoli della natura come il salame, i canestrelli biellesi e il cheese cake della mia tata, che consumo a metri cubi, a camion direi. Lo so, sono una persona ignobile, tanto più che sono una madre di famiglia, e della mia inettitudine risentono i miei cari.
E' chiaro che una persona tanto spregevole non può azzardarsi a parlare di Bengodi, il sontuoso nuovo libro di Camillo Langone, appena uscito per la Marsilio. Un libro scritto benissimo, e in più dal caro amico al quale devo la decisione di provare a mettere insieme Sposati e sii sottomessa. [...]
Ma poiché Bengodi è un libro pieno di senso religioso, se religio prima di tutto significa scrupolosità, coscienziosità, aderenza alla realtà e solo poi rimanda al timore di Dio, la sua lettura mi ha richiamato al cuore altre due opere che come quella di Camillo raccontano dell'urgenza di vivere secondo religio. Di fare le cose, che sia mangiare, bere o vivere, bene e seriamente.
Il primo è il documentario di Emmanuel Exitu su Mario Melazzini. Si chiama "Io sono qui" – titolo meraviglioso – e racconta la storia di questo primario di Pavia che un giorno andando in bicicletta si vide scivolare il piede dal pedale, e pensò semplicemente di avere i riflessi un po' annebbiati dalla stanchezza. Non capì subito di avere la Sla, una malattia terribile che porta alla paralisi progressiva e alla morte.
Il documentario racconta una settimana nella vita combattiva di Melazzini, che dopo un periodo di ribellione e rabbia (ne ripercorre le tappe anche il libro che ha scritto con Marco Piazza per la Lindau) si è rimboccato le maniche e ha messo le sue gigantesche capacità di medico al servizio della lotta alla malattia, riuscendo a rallentarla per sé, e combattendo la stessa battaglia con tutti i malati che assiste dalla mattina alla sera, nonostante la sedia a rotelle e la fatica di respirare. La telecamera lo segue discretamente, senza mai essere invadente, niente musica melensa, niente frasi moraleggianti, solo la forza di una vita accettata e poi spesa per gli altri. "Io sono qui, dice Melazzini, e nonostante i limiti questa è una cosa meravigliosa. Noi apparteniamo a Qualcuno."
Nel suo Diario, Anna Frank, alla mamma che le diceva "pensa a chi sta peggio di noi, e consolati", rispondeva che lei preferiva pensare piuttosto a chi era felice, ai campi assolati e fioriti, perché questo la rendeva più serena. Ecco, vedere il documentario mi ha ricordato quella caparbia voglia di vivere contro ogni circostanza sfavorevole, e di farlo bene. Anzi, meglio di prima: "prima io volevo guarire i miei pazienti, adesso li voglio curare", dice il medico. E poi, a un malato preso da scoramento, con la massima normalità aggiunge: "Basta tararsi di nuovo, fare i conti con la nuova situazione e piano piano ripartire".
Ecco, bisogna vincere un po' di resistenza, avere il coraggio di pigiare play sul dvd: dopo non si avrà mai più la tentazione di fare una vita svaccata, al minimo.
Alla sofferenza, questo mistero, ci si può ribellare. Oppure si può decidere, grazie a non so quali risorse segrete (spero che siano contenute anche nel salame, eventualmente), di stare docilmente sotto terra a farsi maciullare, per dare frutto.
Io ho un'amica molto cara che a un certo punto si è resa docile alla sua malattia, ed è diventata una delle persone migliori che abbia mai conosciuto. Mi rimane solo il rammarico che adesso che sta portando frutto siamo tanto tanto lontane, mentre quando eravamo vicine io ero una ragazzina ottusa, e lei forse non era ancora così bella.
Qualche tempo fa un amico mi ha mandato un altro libro scritto da un malato, sempre di Sla: un pompiere di Narbolia, in provincia di Oristano, che si chiamava Carlo Marongiu.
Nel '97 gli viene diagnosticata la malattia, che racconta nel suo "Pensieri di uno spaventapasseri", un libro che meriterebbe il Pulitzer, se non altro per come è stato scritto: Carlo guardava le lettere su un foglio di carta e la moglie, Mirella Firinu, vedeva le le lettere indicate e componeva le frasi dettate dal marito.
Un marito a cui dispiace disturbare tanto in casa ("devo sopportare tutto, perché un malato è già fastidioso di per sé, figurarsi quando si lamenta"), ma che nonostante tutto vuole vivere, anche solo per gioire per le Ave Maria sentite recitare in dialetto sardo dentro la grotta di Lourdes, per consigliare pazientemente i figli (sempre col faticoso metodo di guardare le lettere sul cartellone). Nella sua immobilità si sente simile a uno spaventapasseri.
"Non pensiamo mai di chiedere qualcosa a Dio, neanche quando abbiamo bisogno e facciamo come se non esistesse. Quando andiamo nella sua casa non ci prepariamo all'incontro, e siamo sempre talmente distratti che ci dimentichiamo spesso persino di salutarlo. Penso decisamente che anche Dio più di una volta deve sentirsi uno spaventapasseri".
Nota di BastaBugie: per richiedere una o più copie del libro di Carlo Marongiu "Pensieri di uno spaventapasseri" (6 euro, pagine 157) occorre scrivere a Carlo Marongiu, viale Emilio Lussu 13, 09070 Narbolia (Or). Il ricavato della vendita andrà in beneficenza. Garantiamo che è veramente bello!
Inoltre consigliamo la visione del seguente filmato:
http://www.youtube.com/watch?v=yH7q7K7iKNg
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