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« Torna agli articoli di Costanza
A casa mia, quella d'origine dico, il "tocco Costanza" è convenzionalmente, da decenni, ben noto come quella presenza invariabile di qualcosa che non arriva perfettamente all'obiettivo: una scarpa slacciata, un tacco dodici orlato di fango, un filo che pende sempre dal golfino, anche quando è di angora, una macchiolina (se vi prendete qualche minuto ne trovate una su qualsiasi mio capo di abbigliamento, nessuno escluso). Qualcosa di non abbinato o di mancante. Oppure qualcosa di eccessivo. Mi sento sempre la protagonista di una vignetta di indovina l'errore, della Settimana enigmistica. Il fatto è che generalmente faccio qualcos'altro mentre faccio qualsiasi cosa, e, come si dice a Roma, mi manca sempre un pezzo.
Nonostante questo – o forse proprio questa ne è la causa – soffro della sindrome di cui sono afflitte moltissime femmine della specie: il perfezionismo.
Per questo, per molti anni, durante l'Avvento, quando leggevo Isaia parlare di colline e montagne abbassate, di valli innalzate per preparare la via al Signore, ho continuato a pensare che mi sarei dovuta preparare "alla perfezione" – e in quale altro modo sennò? – per la venuta di Cristo, e che il fatto che poi, a Natale, non mi sentissi mai davvero, profondamente, intimamente unita a Lui come desideravo dipendesse dal fatto che, in pratica, non avevo lavorato abbastanza. Non mi ero data da fare, insomma. Non ci avevo capito niente, è chiaro. Come direbbe Quelo, la risposta che cercavo era dentro di me, ed era sbagliata. Non che ora abbia raggiunto chissà quali vette di intima unione con Gesù, ma d'altra parte la nostra ricerca è già un'unione, il desiderio è già in parte il suo compimento, e mai in questa vita il nostro desiderio sarà completamente saziato, la nostra nostalgia dimenticata.
Il fatto nuovo della maturità, oltre alle zampe di gallina e altre piaghe fisiche che non autodenuncerò per nessun motivo al mondo, almeno non finché non venga proclamato un condono che mi consenta di far rientrare dall'estero tutti i miei cedimenti strutturali mantenendone comodamente solo un cinque per cento, è che comincio a intuire che tutto quello che faccio io è nulla, è uno sforzo al quale Dio guarda con benevolenza infinita, ma nulla più.
A volte ho dei lampi di lucidità in cui mi sembra chiarissimo che tra chi ce la mette tutta, per vivere da cristiano, e chi ha tolto la fede dal suo orizzonte c'è più o meno qualche millimetro di differenza, rispetto alla meta, Dio. E questo può non esserci chiaro solo se misuriamo le cose con il metro degli uomini. D'altra parte, di quale grandezza stiamo parlando se il nostro re si è fatto prendere in giro, accusare, sputacchiare, flagellare e inchiodare a morte su un pezzo di legno senza difendersi? Il vero passaggio verso la conversione si comincia a fare quando si ha la percezione della propria, reale, profonda, irrimediabile, inappellabile schiapperia. Complimenti per la perspicacia, ci ho messo solo una quarantina d'anni ad arrivarci. Bastava leggere le beatitudini, tanto per dirne una. Non sono i virtuosi, i vincenti, gli irreprensibili a essere beati, cioè santi (tanto meno gli ingessati o i musi lunghi). Sono quelli che non ce la fanno, quelli che arrancano, quelli a cui manca qualcosa, quelli che hanno fame e sete. Perché loro, in questa attesa di qualcosa che li colmi, hanno l'esatta percezione dell'essere bisognosi di Dio. Ho sentito tante interpretazioni bislacche del Vangelo, ma quella che più mi fa arrabbiare è quella paupero-vittimistica: i poveri e gli sfortunati alla fine poi avranno una compensazione, dopo la vita terrena. Quindi la ricchezza e la fortuna sono un male. Quando sento simili cretinate vorrei cominciare, evangelicamente, a mulinare nell'aria una scimitarra per mozzare le lingue, ma per fortuna non ne sono munita. Gesù non ha mai detto guai alla ricchezza, che è una benedizione, ha detto guai a voi ricchi, che è diverso. E la differenza è che mentre un certo benessere è sicuramente una cosa buona, il rischio che corrono i ricchi è che si dimentichino di Dio. Siccome tutti siamo ricchi di qualcosa, questo dimenticarci di Chi siamo è il vero rischio, è il vero peccato. E il peccato ci fa stare male qui sulla terra, crea l'inferno qui e ora, oltre ad assicurarcelo per l'eternità. Beati dunque noi quando non funzioniamo, perché questo ci ricorda che il vuoto è il nostro marchio di fabbrica. Allora Isaia quando parla di colline da appianare non ci dice di essere bravi, per meritare qualcosa, ma di permettere a Dio di agire nella nostra vita.
Come si fa? Nessuno ha una ricetta. Noi non possiamo fare altro che collaborare alla grazia. Svegliarci presto per vedere il sole, Dio, che sorge. Non siamo noi a farlo levare, ma siamo lì quando arriva. Quando cominciamo a vedere, al sole di questa luce, di che pasta siamo fatti – scadente – cominciamo a entrare nella prova e nella purificazione, che poi porteranno all'unione, dicono i mistici, beati loro che ci sono arrivati.
Le valli colmate, allora, mi parlano di tutte le ferite che ognuno si porta dietro, dal grembo materno in poi (non tutte le intuizioni della psicanalisi sono da buttare), e forse anche da prima. La grazia di Dio insieme alla nostra collaborazione attiva, al nostro consenso, ci porteranno senza che ce ne accorgiamo, dove volevamo, asciugheranno ogni lacrima, renderanno piani i luoghi impervi, e alcuni di quelli che ci stanno intorno, nei loro piccoli inferni, verranno a riposarsi da noi. Non per noi, ma per quel sole di cui profumiamo.
Buon Natale!
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