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La vicenda di don Canio merita almeno un attimo di riflessione. Un film può fare male se è un servizio alla demenza.
Un film non fa male, dicono. Un romanzaccio di basso livello non può far male a nessuno. Di solito si dice così. Ed è difficile sostenere il contrario. Un romanzo o un film possono far arrabbiare, possono dispiacere, possono far litigare. Però, si dice di solito, non si può accusare un romanzo o un film di provocare danni seri. Di solito si dice così, anche perché, chi si azzarda a sostenere il contrario viene subito sbattuto tra i sostenitori della censura o peggio del totalitarismo. E dunque, va bene, i romanzi e i film – anche i più banali o violenti – male non fanno. Ma andate a dirlo a don Canio, che s’è preso le coltellate di uno squilibrato, il quale tra le altre confusionarie motivazioni ha addotto pure quella di aver visto la sera prima 'Il codice da Vinci'.
Duecento punti di sutura, il rischio di morire. Andate a dirlo a don Canio che quel film – guarda a caso mandato la sera prima – non gli ha fatto niente.
Marco, il venticinquenne è un povero ragazzo lasciato solo coi suoi fantasmi. Una mente invasa da fumi paranoici.
La testa avvelenata da fantasmi e da chi sa quali traumi che han preso le sembianze di una maschera da Anticristo di quartiere, armato di coltellaccio e pericoloso. La visione di quel film ha scatenato in una mente già piegata all’insania qualcosa di mostruoso. E allora si potrebbe sostenere che un film così sinistramente violento contro qualcuno, in questo caso contro la Chiesa, può fare danni solo se visto da menti malate. Ma già vediamo i benpensanti storcere il naso e affermare di sentire odore di roghi di libri. E allora, d’accordo, diciamo pure, ancora una volta, che i romanzi falsamente velenosi, che dipingono qualcuno orrendamente, non fanno mai male, se pur qualche mente deviata ne può subire un fascino pericoloso. Ma andate a dire a don Canio che no, che anche se non trasmettevano quel film lui le coltellate tanto se le beccava lo stesso.
Che se sta rischiando la pelle, no, non c’entra nulla col fatto che la sera prima in tv i preti come lui siano stati dipinti come una feccia umana, come i peggiori nemici della verità e della convivenza. Diteglielo a don Canio e ai tanti preti di parrocchia, ai tenti preti che stanno in mezzo alla gente, che no, non si devono preoccupare se una potentissima macchina mediatica si è messa in moto per ritrarli come persone oscure, macchinatori infernali, dediti a pratiche assurde. Sì, può darsi che qualche squilibrato ci ricaschi. Ma niente di grave. Per nessuno, a parte che per chi si becca le coltellate.
Saggiamente, qualche giorno fa, il portavoce dell’Opus Dei Corigliano ha dichiarato che quel romanzo e il film che hanno ritratto i membri dell’Opera come dei sanguinari macchinatori, può essere usato invece come occasione per fare chiarezza.
Forse trasmettere un film così violentemente anticristiano – e proprio in questi tempi in cui non i libri si incendiano ma le cattedrali – senza proporre alcuna possibilità di replica o di discussione, non è proprio un servizio alla chiarezza. Anzi, di fatto è stato solo un servizio alla demenza di qualcuno che poi ha alzato la lama.
Questi sono i fatti. Che non possono non inquietare. A meno che la vita e le cicatrici di un uomo, di un prete, valgano meno di un principio che si evoca astrattamente e spesso solo in certi casi e stranamente non in altri: la libertà di espressione. Quando un principio astratto e ambiguamente impiegato deve fare i conti con il sangue è meglio che venga verificato seriamente. E ne sia corretto l’uso distorto, quando lo si agita a copertura di intenzioni offensive che dalla irresponsabilità della pagina scritta possono muovere gesti irresponsabili.
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