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« Torna agli articoli di Giacomo Biffi
Nel pomeriggio di domenica 9 aprile 1989 (il giorno indimenticabile della canonizzazione di Clelia Barbieri) Giovanni Paolo II, ricevendo i pellegrini bolognesi nell’Aula Paolo VI, definì la presenza spiritualmente incisiva e feconda della nuova Santa in mezzo alla sua gente «un vero risorgimento al femminile». In quel contesto la parola era insolita e giungeva del tutto inattesa. Metto conto adesso di raccoglierla e di farne oggetto di un po’ di attenzione, perché ci avvii a una miglior conoscenza di questo «candido fiore, che la nostra terra ha regalato al cielo» (Proprio bolognese della Liturgia delle ore). Tanto più che c’è una curiosa coincidenza: i giorni della breve esistenza di questa «figlia del bracciante», assurta agli onori degli altari, si collocano esattamente nello spazio della vicenda nazionale che noi chiamiamo appunto «Risorgimento». Clelia nasce l’anno prima del turbolento 1848, che è indicato nei libri di storia patria come quello della prima guerra di indipendenza; e muore nel 1870, qualche mese avanti l’ingresso dei bersaglieri in Roma per la breccia di Porta Pia. Dei protagonisti dei radicali sconvolgimenti che portarono all’Unità d’Italia – di Vittorio Emanuele II, di Cavour, di Garibaldi, di Mazzini – la storiografia consueta ci racconta tutto o quasi. Ma non ci dice nulla (o quasi), di come il popolo semplice abbia vissuto quegli avvenimenti. Domandiamoci, allora, per una volta: dell’imponente mutazione di regime la gente persicetana (per esempio alle Budrie) (riferimento a San Giovanni in Persiceto vicino a Bologna, n.d.BB) che cosa ha percepito nell’umile concretezza della sua oscura esistenza? Ha assistito con animo più sbigottito che partecipe a tante imprevedute novità, che dovettero sembrare abbastanza inspiegabili. Nelle aule scolastiche l’immagine mite e familiare della Madonna di San Luca fu sostituita dal fiero e baffuto ritratto di un re forestiero. Proprio in quegli anni il giovane stato unitario decise di impadronirsi di molte proprietà che erano a originaria destinazione religiosa. E, come spesso capita in questo mondo, invece dei ladri, si mettevano in prigione i derubati. Fu così che Clelia e i suoi comparrocchiani ebbero il sorprendente spettacolo dell’arresto e della partenza per il carcere di don Gaetano Guidi, il pastore da tutti benvoluto e stimato. In occasione della guerra del 1866 – Clelia aveva diciannove anni – la chiesa più importante del territorio, la collegiata di San Giovanni, venne requisita e per più di un mese fu adibita a magazzino da parte delle autorità militari che per le loro necessità non avevano proprio saputo immaginare altre soluzioni. Nello stesso torno di tempo, l’arcivescovo di Bologna fu dal nuovo governo impedito per ventidue anni (dal 1860 al 1882) di occupare la sua legittima sede e di esercitare liberamente il suo ministero. In conseguenza della coscrizione obbligatoria, furono sottratti ai lavori dei campi e chiamati alle armi quei poveri contadini, ai quali per altro non era consentito di votare. Per non parlare dell’inaudita ed esecrata tassa sul macinato, a proposito della quale il comando generale di Bologna ebbe il bel pensiero di togliere il batacchio alle campane di quei paesi; campagne colpevoli di avere talvolta accompagnato e incoraggiato gli assembramenti di protesta dei coltivatori esasperati. Si era nel 1869, l’anno prima della morte della nostra Santa. Questo, o poco più di questo, è stato il Risorgimento nazionale visto dal basso, dalla paziente umanità che stentava la vita sotto l’argine del Samoggia. In questo clima depresso e rannuvolato Clelia è apparsa come un raggio di sole. Questa ragazza, germinata dalla loro anima e dalla loro cultura più vera, è apparsa alle genti di quella terra come il segno di una speranza nuova, come il presentimento che qualcosa potesse davvero cominciare a «risorgere». Ed era, per così dire, un «risorgimento al femminile».
Si trattava di una giovane donna che non organizzava rivendicazioni, non pretendeva posti direttivi nella società, non pensava affatto di realizzarsi assumendo compiti e responsabilità tipicamente maschili. Proprio con la sua naturale e intatta femminilità è diventata nel breve spazio della sua esistenza il riferimento più indiscusso, la voce più ascoltata, la «madre» della piccola comunità rurale in cui era inserita. E dopo la morte la sua fede e la sua straordinaria capacità di amare – restando tipicamente e totalmente «femminili» – si sono imposte all’attenzione ammirata di tutta la Chiesa. È un insegnamento prezioso da non dimenticare. Il pieno riscatto della condizione femminile non starà nell’opporre all’egoismo dell’uomo l’egoismo della donna, ma nell’aprirsi senza riserve da parte degli uomini e delle donne all’unico disegno di Dio. Così come la salvezza dei nostri giovani – ed è un altro insegnamento di questa giovane santa – non verrà dalla moltiplicazione degli agi e delle occasioni di godimento (e tanto meno dall’accondiscendenza senza limiti e dal permissivismo), ma dalla seria riscoperta della verità e della bellezza della vita vissuta in obbedienza al progetto eterno del Creatore. Queste sono le più significative lezioni esistenziali che ci vengono da santa Clelia.
CARD. GIACOMO BIFFI1
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