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« Torna agli articoli di Giacomo Biffi
Con questa intensa celebrazione "nella cena del Signore" ha inizio il Triduo pasquale, cuore di tutto l'anno cristiano. In esso rievochiamo efficacemente - ed è un unico evento salvifico - l'immolazione cruenta di Cristo e la vittoria definitiva del suo splendente ritorno alla vita.
Il Triduo trova il suo principio - e quasi il suo slancio - appunto stasera, in una commossa "festa dell'amore che si dona"; arriva poi al suo culmine nella Veglia pasquale, che canta i prodigi della rinascita dell'uomo e del rinnovamento dell'universo; si conclude infine all'ora vespertina di domenica prossima con la contemplazione ammirata e affettuosa del Risorto, il quale nella concretezza dell'esperienza ecclesiale resta presente e attivo tra i suoi come causa e modello dell'esistenza redenta.
Stasera siamo dunque convocati a ricordare e a riattualizzare quel "convito nuziale", nel quale l'unigenito Figlio di Dio, consegnandosi alla morte, volle affidare alla sua Chiesa, perché lo custodisca e ne viva nei secoli, il suo "nuovo ed eterno sacrificio" (come ci ha detto in apertura l'odierna liturgia).
Mai come in quest'ora possiamo chiaramente comprendere con quale animo si debba partecipare alle nostre abituali eucaristie: non certo come un obbligo che ci è imposto dalle consuetudini religiose e sociali, ma soprattutto come un'espressione di gratitudine. E' la calda inestinguibile gratitudine verso colui che si è congedato visibilmente da noi - da noi che siamo stati gratificati della sua amicizia - mettendo, per così dire, nelle nostre mani la ricchezza riscattatrice della sua morte in croce e lo Spirito santificatore che trabocca e viene a noi dalla sua umanità risorta e trasfigurata.
SIGNORE DA CHI ANDREMO?
Il sacramento del "Corpo dato" e del "Sangue versato" nella sua essenziale verità è questo: è un "dono" sovrumano che - elargito nel contesto di intimità e di soffusa mestizia dell'ultima cena - ha poi impreziosito ogni angolo della terra e ogni anno della vicenda umana. Ed è il dono più esuberante e più sorprendente, che ci è venuto della fantasiosa misericordia del Signore.
Ma bisogna fare attenzione a cogliere e a custodire la divina logica dell'ordine sacramentale. Alla rigenerazione battesimale sono chiamate tutte le creature: a tutti (quale che sia la loro posizione religiosa e culturale di partenza) va annunciato il Vangelo (cfr. Mt 28,19), perché tutti arrivino a conoscere e a riconoscere il Signore Gesù, unico necessario Salvatore, e a capire la soprannaturale bellezza della Chiesa sua Sposa. Invece il dono dell'eucaristia, nel disegno del Padre, è riservato ai credenti.
Questo si dice non per intimidire o escludere dalle nostre messe qualcuno; piuttosto per ricordare a tutti noi, che ci avviciniamo abitualmente al "mistero della fede", l'intrinseca necessità di ravvivare ogni volta la nostra interiore adesione al Signore Gesù, alla sua verità e alla sua grazia.
Il giusto atteggiamento di chi si reca all'assemblea eucaristica è quello che troviamo espresso dalle parole umili e ardenti rivolte a Gesù da san Pietro in un'ora difficile: "Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (Gv 6,68-69).
QUESTO È IL MIO CORPO, QUESTO È IL MIO SANGUE
Nel cenacolo Gesù dice sul pane: "Questo è il mio corpo"; cioè, "questa è la mia realtà, questo sono io". Poi dice sul vino: "Questo è il mio sangue"; cioè: "Questa è la mia vita". Vale a dire, in sintesi: "Questo è il mio essere vivente, ed è dato per voi". Tutta la sua passione, liberamente offerta come sacrificio di redenzione (sulla quale mediteremo domani), è l'inveramento del suo gesto eucaristico.
Egli si è immolato e si è avviato spontaneamente alla morte perché noi fossimo redenti e giustificati, in modo che il nostro vivere e il nostro morire essenzialmente fosse, come il suo, una "Pasqua": cioè un passaggio da questo mondo al Padre, dalle tristezze e dalle miserie della terra alla gioia e alla gloria del Regno. E sta proprio qui la "fine", l'estremo, il colmo invalicabile del suo amore per noi.
È quanto ci ha voluto dire l'evangelista Giovanni con l'attacco suggestivo della pagina evangelica che abbiamo ascoltato: "Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1).
Fare comunione con il sacramento della suprema donazione di Cristo non è un gesto che possa rimanere senza un seguito nella nostra storia personale e senza esistenziali implicazioni. Non va mai inteso come un debito da pagare, così che coll'adempimento tutto si debba ritenere concluso.
E' invece una solidarietà da assumere progressivamente con Gesù, con il suo modo di pensare, con il suo modo di comportarsi, con il suo modo di morire. E' almeno tentare di rendersi disponibile a lasciarsi riscattare, in virtù del suo sacrificio, da ogni infedeltà, da ogni incoerenza, da ogni troppo scarso fervore.
Per partecipare bene al banchetto nuziale di Cristo bisogna mirare consapevolmente al traguardo di vivere come è vissuto lui, nell'obbedienza filiale alla volontà del Padre oltreché nella fattiva e generosa attenzione ai fratelli.
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