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« Torna agli articoli di Gianfranco Amato
Si è svolto a porte chiuse il processo davanti la High Court di Edimburgo sul caso di un dodicenne accusato di stupro e abusi sessuali nei confronti di una bimba di nove anni. Il giovane imputato, oggi quattordicenne, si è dichiarato colpevole ed ha così evitato la prigione. Sarà sottoposto ad una lunga riabilitazione sotto stretta sorveglianza. Le particolari circostanze di questo caso non risiedono tanto nella giovane età dei protagonisti, quanto nelle motivazioni che hanno scatenato gli eventi. Il ragazzo ha confessato, infatti, di essere dipendente dalla pornografia online, e di aver iniziato ad abusare della piccola figlia del vicino di casa dopo l'ennesima visione di un filmato hard core. Voleva "sentirsi grande".
Il dramma è venuto alla luce quando la bambina, accusando dei dolori addominali, ha dichiarato alla madre di temere di avere «un bimbo nel pancino». Da qui la non facile confessione di quanto accaduto. La polizia ha poi accertato che gli abusi si sono protratti in un arco di tempo dal 1° dicembre 2010 al 31 gennaio 2011. L'avvocato Sean Templeton, difensore del ragazzo, ha parlato della vicenda come della «punta dell'iceberg» di un ben più diffuso fenomeno nel Regno Unito, essendo moltissimi, purtroppo, «i casi non conosciuti, non denunciati e rimasti nell'ombra». Lo scorso 18 aprile 2012 un'apposita commissione parlamentare d'inchiesta, la Independent Parliamentary Inquiry into Online Child Protection, ha reso pubbliche le conclusioni cui è giunta in una relazione finale, in cui sono stati denunciati i rischi d'emulazione e la relazione tra violenza e pornodipendenza minorile.
I dati ufficiali resi in quel documento sono agghiaccianti. Quasi un bambino su tre, al di sotto dei dieci anni, ha visto immagini sessualmente esplicite online, e la stragrande maggioranza dei minori ha libero accesso su internet senza controllo di adulti (si consideri che l'età media del primo contatto col mondo del web è di otto anni in Gran Bretagna), mentre quattro adolescenti su cinque di ambo i sessi, compresi fra i 14 ed i 16 anni, guardano indisturbati a casa propria immagini pornografiche online. Questo è il background che ha portato al triste caso deciso dall'Alta Corte di Edimburgo, in merito al quale si può aggiungere una considerazione.
Il 7 maggio 1989 il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali emanava un documento intitolato Pornografia e violenza nei mezzi di comunicazione – Una risposta pastorale, analizzava la relazione tra pornografia e violenza: «E' stato detto che esisterebbe un legame fra pornografia e violenza sadica; un certo tipo di pornografia è marcatamente violenta nella sua espressione e nei suoi contenuti», e «coloro che guardano o leggono produzioni di questo tipo, corrono il rischio di trasferire questi atteggiamenti nel loro comportamento e possono arrivare a perdere ogni rispetto per gli altri, che pure sono figli di Dio e fratelli e sorelle della stessa umana famiglia».
Ricordo ancora le rabbiose reazioni che seguirono a quel documento, e le consuete accuse ad una Chiesa sessuofoba, incapace di accorgersi del "cambiamento dei tempi", arroccata nel Medioevo arcaico del suo oscurantismo. Erano quelli i tempi del mito dell'educazione sessuale, dell'emancipazione del porno, e della nudità come ingrediente necessario e indispensabile in tutti i campi dello scibile umano (carta stampata, pubblicità, arte, cinema, ecc.). Oggi i fatti che siamo costretti a commentare confermano quanto fossero profetici, come sempre, gli ammonimenti della Chiesa. Dopo averli contestati ora li condividono tutti, Parlamento inglese compreso. Con ventitre anni di ritardo.
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