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« Torna agli articoli di Giorgio Carbone
Il drammatico caso esistenziale di Eluana Englaro, i pronunciamenti della giurisprudenza e il vivace dibattito che ne è seguito hanno riportato alla ribalta un tema di carattere fondamentale, quello dei beni indisponibili. Esistono, cioè, beni di cui la persona umana può disporre nell’esercizio della sua libertà ed esistono beni di cui la stessa persona non può disporre. A proposito di questi ultimi, pur essendo beni propri della persona, al punto che si chiamano anche beni personalissimi, ognuno di noi non ne può disporre per il semplice fatto che, se ne disponesse, non potrebbe poi più disporre degli altri beni disponibili e né potrebbe disporre della stessa libertà. Scendendo nei particolari, il primo bene indisponibile è la mia vita fisica, cioè il mio atto di esserci, il mio esistere. Che sia un bene indisponibile lo illustro ricorrendo a due considerazioni. Prima: il mio esistere è indisponibile, perché è la condizione per poter compiere atti e gesti di libertà.
Perciò è ovvio ricordare che, se disponessi del mio esistere privandomi di esso, mi precluderei qualsiasi esercizio futuro della libertà. Seconda: perché io, pur godendo dell’esistenza, sperimento di non esser venuto all’esistenza di mia iniziativa, ma che l’ho ricevuta senza un mio intervento e che mi potrebbe essere tolta in qualsiasi istante, sebbene la volontà mia o altrui si opponga.
In altri termini, io non sono la causa efficiente del mio esserci, perché se lo fossi dovrei essere prima ancora di esistere. Perciò devo ammettere di dipendere nell’essere e che il mio esistere è un bene che supera la mia capacità di realizzazione. Ora mentre posso disporre di quei beni che rientrano nelle mie capacità, cioè di quei beni alla cui esistenza io concorro come causa efficiente (come ad esempio la proprietà di oggetti o le prestazioni professionali), non posso eticamente disporre di quei beni che eccedono le mie capacità.
Ed è proprio questo il caso del mio esserci. È vero che di fatto posso suicidarmi, cioè disporre della mia esistenza. Ma che ciò sia fisicamente possibile non significa che sia eticamente sostenibile, che sia corrispondente alla dignità umana. Anzi, se disponessi del mio esserci mediante il suicidio, andrei al di là di quelle che sono le mie competenze e cadrei nella più tragica delle contraddizioni, perché eserciterei la mia libertà a danno di me stesso.
Che il mio esistere sia un bene indisponibile lo posso solo mostrare, ma non dimostrare in modo apodittico, perché si tratta di un principio fondante e non di un giudizio, che è la conclusione di un ragionamento. Come nelle scienze gli assiomi non si dimostrano, ma si mostrano e si accettano per progredire nella ricerca e nelle conoscenze scientifiche, e in logica il principio di identità e di non contraddizione si mostra ma non si dimostra, perché è il fondamento di qualsiasi dimostrazione, così uno dei principi della vita umana buona e, quindi, della civilizzazione umana, è questo: «L’esistenza fisica umana è un bene indisponibile». Su questo principio si è costruita la civiltà umana e la pacifica convivenza. Da questo principio si è sviluppata la convinzione della pari dignità e dell’uguaglianza tra gli esseri umani, perché dire che l’esistenza fisica umana è un bene indisponibile significa dire che essa non ha un prezzo, non è misurabile in termini monetari, ma ha un valore mai riducibile in termini quantitativi: ha, appunto, una dignità eccelsa. Le diverse sentenze sul drammatico caso di Eluana, e da ultimo anche la sentenza della Cassazione del 13 novembre, hanno contraddetto di fatto questo principio fondamentale di civiltà e hanno introdotto il suo contrario, sostenendo la disponibilità della vita umana e in particolare della vita umana malata. Ciò è particolarmente grave perché di fatto sono così negati la pari dignità tra gli esseri umani e il principio di uguaglianza.
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