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La parola "eresia" è scomparsa dal vocabolario della predicazione cristiana. Con gravissimi danni: minore vigilanza sugli errori dottrinali e scarsa attitudine a contrastarli. Ma la vera carità intellettuale è innanzitutto amore per la Verità. Che va promossa ma anche difesa.
«Ma l'ha letto l'ultimo libro di Mancuso? Io l'ho trovato splendido. Una lettura che bisognerebbe consigliare a tutti. Lì si capisce come la fede può, anzi deve dialogare con la scienza».
Così, in un colloquio di fine gennaio, un insigne uomo di scienza cattolico, e invitato di tanto in tanto come conferenziere in consessi cattolici di alto livello, mentre si discuteva di altro comunicava al suo interlocutore, il sottoscritto, l'entusiasmo per l'ultimo acquisto librario: L'anima e il suo destino (Raffaello Cortina editore), il bestseller, appunto, di Vito Mancuso, docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di filosofia dell'Università San Raffaele di Milano.
Non era troppo difficile controbattere su due piedi a tale fregola. Non serviva nemmeno una puntuale recensione come quella di padre Corrado Marucci - che sarebbe uscita di lì a pochi giorni sulla Civiltà Cattolica - per capire come il teologo milanese neghi alla radice, tra le altre cose, la creazione dell'anima direttamente da parte di Dio, il peccato originale, la distinzione tra spirito e materia, la resurrezione dei corpi, il purgatorio, l'eternità dell'inferno. Cioè, in sostanza, come liquidi la fede cattolica a favore di un personale impasto di «neoplatonismo, gnosticismo razionalista e scientismo» (Marucci). Bastava leggere il libro.
Ma l'insigne scienziato, posta una certa superficialità in campo dottrinale, aveva in fondo delle attenuanti. Non è forse preceduto, il libro di Mancuso, da un'autorevole e calorosa, per quanto prudente, prefazione cardinalizia? E non è stato Mancuso, per alcuni anni, stimato come una promessa della teologia italiana, dopo aver già dato ampi segnali di una eterodossia di fondo?
Attenuanti che si potrebbero estendere anche ai numerosi autori citati e presi a riferimento dal teologo milanese. Uno fra tutti, il gesuita e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin, che, si sa, piace molto agli scienziati, oltre che alla solita intellettualità cattolica, la quale ama citarlo come esempio di pensatore in anticipo sui tempi, capace di coniugare fides et ratio e di profetizzare una "apertura della Chiesa al mondo" già ad inizio '900, nel pieno della polemica antimodernista.
Mancuso ha un forte debito speculativo nei confronti di Teilhard (evidente anche ne L'anima e il suo destino) e al pensatore francese ha voluto rendere recentemente un piccolo ma significativo omaggio: gli ha dedicato l'ultima di una serie di lezioni radiofoniche tenute su Radio 3, durante il pomeriggio del Venerdì Santo.
Alla fine di quella puntata, mentre Benedetto XVI officiava in San Pietro la liturgia della Passione del Signore, Mancuso leggeva un passo tratto da uno degli scritti più famosi di Teilhard: La Messe sur le monde, la Messa sul mondo. Scritto che molti anni or sono un valente teologo come Dom Georges Frénaud, monaco di Solesmes, commentava così: «In questa prospettiva semi-naturalistica del Mistero... il padre Teilhard arriva a incatenare tutti i misteri della fede con un legame di necessità in cui non si scorge più il posto per una libertà divina... Ma questa Cristologia rinnovata resta però quella della fede? Resta l'andamento amoroso e perfettamente gratuito di un Dio ricco di misericordia che si fa uomo per strapparci dall'abisso del peccato? Non è forse una nuova forma di gnosi, uno di quei molteplici tentativi sempre vani di razionalizzare il contenuto della fede e di farcelo penetrare non attraverso i principi primi della metafisica, ma, ciò che è peggio, attraverso i soli procedimenti delle scienze fisiche e naturali?».
Queste considerazioni, che si potrebbero riferire in buona parte anche al Mancuso-pensiero, erano contenute in una disamina assai precisa, per quanto sintetica, della teologia e filosofia del gesuita francese, Gli errori di Teilhard de Chardin (Edizioni dell'Albero, 1963). Testo, però, reperibile oggi solamente fra gli scaffali polverosi di qualche biblioteca ecclesiastica. Finito nel dimenticatoio, insomma, come del resto è capitato a un documento ben più autorevole e importante: il monito del Sant'Uffizio, pubblicato il 30 giugno 1962, che invitava i vescovi, i superiori degli istituti religiosi, i rettori dei seminari e i presidi o rettori delle università (cattoliche si intende) a mettere in guardia i fedeli, soprattutto giovani, contro i pericoli derivanti dalle ambiguità e dagli errori filosofico-teologici contenuti nelle opere del padre Teilhard de Chardin. Monito mai "ritrattato" e da considerarsi, perciò, tuttora valido. I motivi che potevano, e possono indurre a inciampare in un testo pur palesemente eterodosso come L'anima e il suo destino sono quindi diversi: apertura di credito all'autore - se non vera e propria sponsorizzazione - fino a ieri da parte di personalità di rilievo del mondo ecclesiale; mancanza di analisi critiche della sua produzione precedente, da parte di chi era deputato a vagliarne l'ortodossia; e, più a monte, mancanza di rigorosi giudizi sull'opera, o singoli e problematici aspetti di essa, di autori a cui Mancuso si appoggia e a cui spesso rimanda: accanto al nome di Teilhard de Chardin si possono aggiungere, per esempio, quelli di Simone Weil, Dietrich Bonhoeffer e anche Hans Urs von Balthasar.
Il caso Mancuso, per la sua portata e la sua chiarezza, può essere quindi lo spunto per meditare non solo, in generale, sulla diffusa confusione dottrinale, ai più svariati livelli, che resta una delle sfide più urgenti per la Chiesa di oggi. Ma per riflettere, più nello specifico, sulle conseguenze che ha avuto lo smarrimento, anche solo lessicale, di una categoria da sempre importantissima nella storia della Chiesa: quella di eresia. La parola, usatissima nel passato e ininterrottamente, dall'inizio della Chiesa fino alla metà del secolo scorso, è come scomparsa dal vocabolario della predicazione cristiana. Per motivi soprattutto psicologici, si può dire: per essersi essa caricata di connotazioni negative, derivanti dalla storia, che hanno profondamente segnato la sensibilità collettiva, tanto da lasciarvi un'istintiva diffidenza, se non repulsione nei suoi riguardi. E tuttavia, questa rimozione, seppur comprensibile per certi aspetti, ha avuto ripercussioni negative e pesanti: un affievolirsi generalizzato della vigilanza per quanto riguarda gli errori dottrinali, e una assai minore attitudine a contrastarli, a esercitare quella carità intellettuale che è innanzitutto amore per la Verità rivelata dal Signore e per il Magistero della Chiesa.
Al problema ha recentemente dedicato un profondo e coraggioso studio - La questione dell'eresia oggi (Viverein edizioni) un domenicano di vaglia, Giovanni Cavalcoli, mettendo in luce il fondamento biblico - dall'Antico Testamento all'Apocalisse - della categoria di eresia, la sua importanza per i Padri della Chiesa e tutti i grandi Santi e la necessità di un suo urgente quanto equilibrato recupero per la difesa della Chiesa e il bene delle anime. Soprattutto le più indifese. Scrive Cavalcoli: «Ciascuno ha il dovere di curare la propria salute, di guardarsi da quanto gli può nuocere, di curare o provvedere alla salute di persone eventualmente affidate alle nostre cure, di procurare un medico a chi ne ha bisogno o di sollecitare il medico a prendersi cura di chi sta male. Quello che vale per la salute del corpo, vale analogamente e ancor più per la salute dell'anima». Compito ingrato, spesso, ma doveroso: «Soffrire e preoccuparsi per il diffondersi delle eresie, domandarsi angosciati con S. Domenico: "Che ne sarà dei peccatori?", esercitarsi nel discernerle, prepararsi a combatterle, sopportare freddezza e incomprensioni in questa fatica da parte degli stessi fratelli di fede, può certo apparire pesante e forse un lottare contro i mulini a vento, e invece ci fa sentire più che mai nel cuore della Chiesa e vicino al cuore di Cristo, sofferenti per le deviazioni di coloro che dovrebbero essere luce del mondo e, se pastori, tenere il lupo lontano dal gregge».
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