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Una recente rassegna sulla prestigiosa rivista Archives of Disease in Childhood sintetizza le linee-guida sulla rianimazione neonatale in auge in molti Paesi, un tema che ora è molto dibattuto. Lo studio è dovizioso in particolari e mostra un fenomeno tipicamente postmoderno in cui il diritto alla vita cede il passo alla sua "qualità": a un aumento delle nascite di bambini prematuri corrisponde una costante spinta a non rianimare i più gravi tra loro, nonostante essi abbiano delle possibilità di sopravvivere.
È un fenomeno allarmante, perché non solo finisce col privare di una chance chi potrebbe averla – uno studio svedese di Stellån Hakansson e altri (Pediatrics, giugno 2004) mostra infatti che le unità di rianimazione che non fanno una selezione alla nascita su chi curare, finiscono con avere in percentuale meno bambini disabili delle altre - ma soprattutto perché rischia di porre la futura disabilità o "l'interesse di terzi" (così Michael L. Gross in Bioethics, giugno 2002) come criterio per rianimare.
Probabilmente questi non sono i principi di tutti i protocolli, ma in molti Paesi occidentali la nascita sotto le 25 settimane di gestazione è considerata una "zona grigia" in cui le cure dovrebbero avvenire eccezionalmente, secondo alcuni solo con l'accordo dei genitori, nonostante che sin dalla ventiduesima settimana sia possibile in misura sempre maggiore la sopravvivenza. Si dice che rianimare bambini che hanno il 10 per cento di possibilità di sopravvivere è "accanimento terapeutico": fortuna che nessuno la pensava così negli anni Sessanta del Novecento quando se un bambino pesava meno di un chilo aveva appunto il 10 per cento di possibilità di farcela, mentre oggi – non avendo smesso di curare i piccoli sotto il chilo – le possibilità sono del 90 per cento.
Ma la non rianimazione del piccolo paziente genera problemi anche a livello scientifico. In primo luogo, perché al momento della nascita non si può avere certezza sulla prognosi. Dunque quando si propone di non assistere i bambini di una certa età gestazionale, lo si fa su base probabilistica e non sul singolo caso, sapendo oltretutto che l'età esatta dal concepimento è spesso per lo meno discutibile.
In secondo luogo, allo stato attuale delle cose sopravvive circa l'8 per cento dei bambini nati dopo 22 settimane dal concepimento, una percentuale pari a quella degli adulti sopravvissuti ad arresto cardiaco, che nessuno – per il momento – propone di non assistere. Già a 23 settimane ne sopravvive il 25 per cento e a 24 settimane il 50. Ma addirittura le conseguenze neurologiche, pur essendoci in molti casi dei gravi handicap come conseguenza della nascita prematura, non sono sempre disastrose, come mostra uno studio di Neil Marlow (New England Journal of Medicine, 2005), secondo cui il 22 per cento dei sopravvissuti sotto le 25 settimane avrà una disabilità grave, il 24 una disabilità media e il 34 una disabilità lieve. Uno studio tedesco di Jochen Steinmacher (Journal of Pediatrics, 2008) mostra che il 57 per cento dei sopravvissuti tra i nati a 23-25 settimane va a scuola regolarmente. Sono dati molto migliori della prognosi di un adulto colpito da ictus cerebrale che il medico ha l'obbligo – e non l'opzione – di curare.
In terzo luogo, molti propongono che i genitori partecipino con un peso determinante alla decisione sulla vita del bambino. Evidentemente chi sostiene questa tesi non sa che i parti sono molto spesso precipitosi: la donna è in preda alle doglie e il padre è ovviamente sconvolto, tanto da non lasciare a nessuno dei due la serenità per pensare. Ma soprattutto, molti invocano che la decisione sulla rianimazione tenga conto anche dei desideri dei genitori, cosa che non sarebbe mai pensabile se il paziente fosse un adulto: in questo caso, la decisione sulla sospensione delle cure riguarderebbe solo la loro inutilità, non il peso che il paziente costituirebbe per i familiari.
Insomma, su molte riviste mediche ci si sta domandando perché il modo di trattare i neonati sia diverso da quello degli altri pazienti, quasi che i primi abbiano uno status differente. Infatti nessun adulto si vedrebbe sospendere le cure se la prognosi non fosse certa, e nessuno penserebbe di non provare ad assisterlo se le possibilità di successo fossero le stesse dei bambini prematuri. Nessuno infine penserebbe di non rianimare un adulto per "alleggerire" il peso ai familiari. Almeno per ora.
Ma l'analisi degli studi scientifici mostra qualcosa di più. Infatti emerge chiaro che dietro un apparente razionale criterio di sospensione delle cure nel "miglior interesse del paziente" ci possano essere le paure e le ansie del medico stesso, piuttosto che un quadro distaccato e clinicamente oggettivo. Uno studio australiano del 2004 ha mostrato come i neonatologi che rianimano di meno sono quelli che più hanno paura di ammalarsi e di morire. E molti altri studi mostrano che l'età del medico, il sesso, l'etnia, la presenza di disabili in famiglia influiscono in maniera fortissima sulle decisioni di vita o morte che il medico prenderà. Uno studio francese di Annie Janvier e collaboratori (Acta Pediatrica, marzo 2008) mostra il livello di questo pregiudizio: domandando a un gruppo di medici se rianimerebbero un neonato di 24 settimane, solo il 21 per cento risponde affermativamente; alla domanda se rianimerebbero un paziente col 50 per cento di rischio di morte e il 25 per cento di rischio di handicap, la percentuale sale al 51 per cento, pur essendo il secondo quadro esattamente equivalente alla prognosi dei bimbi nati a 24 settimane.
Insomma, si tratta di scegliere se trattare i neonati come cittadini oppure subordinare il loro trattamento alle nostre ansie o al mito della "qualità della vita", facendo bene attenzione a un fatto: le ansie sono spesso irrazionali, ma il mito della "qualità della vita" finisce per diventare un alibi per la politica, che invece dovrebbe favorire il benessere dei disabili e delle loro famiglie.
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