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GARIBALDI: TRE UTILI PRECISAZIONI SULLO SCREDITATO EROE
di Angela Pellicciari

Le «scientifiche» argomentazioni firmate da Domenico Merlino si basano tutte (dico tutte) sulla meccanica trascrizione di brani di autori filorisorgi mentali e filogaribaldini, molto lontani dallo svolgimento dei fatti. I libri che ho scritto si sono imposti all'attenzione del pubblico (nonostante la loro radicale alterità rispetto alla vulgata storiografica dominante) perché basati su un serio sforzo di documentazione sulle fonti dell'epoca e un certosino lavoro di archivio. Da questo lavoro è originato, anche, I panni sporchi dei Mille (Liberilibri 2003). Si tratta della ristampa (da me introdotta e commentata) di alcune fonti liberali di primo piano che raccontano come e da chi è stata concepita e organizzata la spedizione dei Mille, oltre a descrivere le raccapriccianti gesta della dittatura garibaldina in Sicilia. Colgo l'occasione per ripercorrere qui le imprese di Garibaldi. Lo farò a modo mio. schematicamente, ricorrendo a documentazione di prima mano e abbondando (me ne scuserà il lettore) in citazioni.

Il bicentenario della nascita di Garibaldi (sponsorizzalo dalla Presidenza del Consiglio, dal Ministero degli Affari esteri, da quello della Difesa, dalla Provincia di Roma oltre che da un'infinità di «comitati cittadini, provinciali e regionali») si è ripromesso di «promuovere la crescita della morale individuale», partendo dall'assunto che «l'epopea garibaldina può legittimamente configurare un contributo determinante alla unità d'Europa, e alla libertà, nell'eguaglianza dei popoli». Il Sole 24 ore, giornale della Confindustria, si è associato al coro unanime delle lodi giungendo a prezzo di quali contorsioni viscerali giudichi il lettore visto il peana che gli industriali innalzano sempre alla libera competizione sul libero mercato - ad affermare che «parlar male di Garibaldi è perciò difficile se non impossibile, e mai e poi mai potrebbe accadere quest'anno, bicentenario della nascita dell'eroe» (Luigi Mascilli Migliorini, 17 giugno 2007). I motivi per cui di Garibaldi non si potrebbe parlar male sono essenzialmente tre: è l'eroe dei «due mondi» perché combatte battaglie per liberare i popoli nei due emisferi; organizza e guida la spedizione dei Mille che conquista il più grande regno italiano con un pugno di scamiciati; raggiunta l'unità, novello Cincinnato, si ritira in solitudine e umiltà a Caprera. Analizziamo i tre punti nel dettaglio.

L'«eroe dei due mondi»

Punto primo: il libertador, nel secondo mondo, si guadagna da vivere commerciando in schiavi. Tornato in America dopo la parentesi rovinosa della Repubblica Romana, è arruolalo come capitano della Carmen dall'armatore ligure Pietro Denegri. Garibaldi che, come Cesare, è convinto dell'eccezionalità delle proprie gesta, pubblica Memorie dettagliate in cui descrive con precisione anche i traffici come capitano della Carmen. Sappiamo così che il 10 gennaio 1852 parte dal porto del Callao, in Perù, alla volta della Cina. La nave trasporta guano (un tipo di concime molto pregiato). Del viaggio Callao-Canton-Lima sappiamo praticamente tutto: giorni di traversata, carichi trasportati, traversie. Manca solo un particolare; non viene specificato con che tipo di merce Garibaldi, dopo aver venduto a condizioni vantaggiose il guano, faccia ritorno in Perù. A questa dimenticanza provvede fortunatamente l'armatore Denegri che, volendo lodare il capitano della Carmen, racconta all'amico di famiglia nonché biografo del generale Augusto Vecchi, il dettaglio mancante: Garibaldi «m'ha sempre portati i cinesi nel numero imbarcato e tutti grassi e in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie». Il libro di Augusto Vecchi La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi (Zanichelli 1882, ristampato nel 1910) subisce una sorte infausta: scompare da praticamente tutte le biblioteche d'Italia. Eppure si tratta di un testo di grande interesse. Vecchi è autore noto nella seconda metà dell'Ottocento, la prefazione di Giosuè Carducci garantisce della qualità dell'opera. Sono riuscita ad acquistare il volume dopo molte ricerche presso una biblioteca antiquaria di Trieste. A buon intenditor poche parole.

La spedizione dei Mille

Punto secondo: l'impresa dei Mille. «Ella vedrà che il concetto fu mio; che Garibaldi esitava (e ne ho documenti): e che da ultimo si decise a partire, quando vide che i siciliani sarebbero partiti senza di lui. Le armi e le munizioni furono somministrate a Garibaldi da me: egli non aveva nulla»: e scrivere così il 14 ottobre 1860 in una lettera a Pietro Sbarbaro, è lo storico siciliano, massone, segretario della Società Nazionale, Giuseppe La Farina. L'impresa dei Mille è progettala a tavolino per quattro anni da Camillo Benso conte di Cavour e Giuseppe La Farina. La capillare organizzazione della campagna d'Italia inizia subito dopo il Congresso di Parigi (1856): lì la questione italiana è messa all'ordine del giorno dell'agenda internazionale. Gli abitanti dell'Italia centrale e meridionale, così affermano Clarendon e Cavour «gemono» sotto il malgoverno pontificio e borbonico. Ottenuta la copertura internazionale, il Regno di Sardegna si prepara, in gran segreto, a «liberarli».

Nel 1862 così scrive La Farina sull’Espero: «Per quattro anni vidi quasi tutte le mattine il conte di Cavour, senza che alcuno dei suoi amici intimi lo sapesse, andando sempre due o tre ore prima di giorno, e sortendo spesso da una scala segreta, ch'era contigua alla sua camera da letto, quando in anticamera era qualcuno che lo potesse conoscere! E in uno di questi notturni abboccamenti, nel 1858, fu presentato al conte di Cavour il generale Garibaldi, venuto clandestinamente da Caprera». Cavour, racconta La Farina, gli aveva detto: «Venga da me quando vuole, ma pria di giorno, e che nessuno lo veda e che nessuno lo sappia. Se sarò interrogato in Parlamento o dalla diplomazia (soggiunse sorridendo) lo rinnegherò come Pietro e dirò; non lo conosco». Lo sbarco in Sicilia riesce anche perché Cavour manda l'ammiraglio Persano a corrompere l'ufficialità borbonica. Scrive Persano nel Diario politico militare: «La casa De La Rue di Genova [banchieri amici di Cavour] aprirà in Napoli, presso il banchiere De Gas, un credito illimitato a mia disposizione». Grazie a questo «credito illimitato» Persano può comunicare a Cavour il felice esito di una corruzione condona a livello capillare: «L'ufficialità l'abbiamo quasi tutta, pochissime essendo le eccezioni [...]. Noi continuiamo, con la massima segretezza, a sbarcare armi per la rivoluzione, a tergo delle truppe napoletane». Tutto va a gonfie vele, assicura Persano. Solo un neo turba la mirabile organizzazione dell'invasione dell'Italia meridionale: «Osservo che converrebbe tener gli occhi aperti sulle spedizioni degli individui che da noi si fanno per qui, e di veder modo di ritenere molta gentaglia che muove per queste contrade a nessun altro scopo, se non per quello di pescar nel torbido». Che i Mille non fossero idealisti disinteressati lo conferma lo stesso Garibaldi che così li descrive: «Tutti generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto».

A cose fatte, a invasione avvenuta, La Farina indirizza a Cavour dispacci quotidiani e cosi descrive l'ordine che regna in Sicilia sotto la dittatura garibaldina: «lo non debbo a lei celare che nell'interno dell'isola gli ammazzamenti seguono in proporzioni spaventose [..,] l'altro giorno si discuteva sul serio di ardere la biblioteca pubblica, perché cosa dei gesuiti; si assoldano a Palermo più di 2000 bambini dagli 8 ai 15 anni e si da loro 3 tari al giorno […]. Si da commissione di organizzare un battaglione a chiunque ne fa domanda; così che esistono gran numero di battaglioni, che hanno banda musicale e officiali al completo e quaranta o cinquanta soldati! [...]. Si manda al tesoro pubblico a prendere migliaia di ducati, senza ne anco indicare la destinazione! Si lascia tutta la Sicilia senza tribunali né civili, né penali, né commerciali, essendo stata congedata in massa tutta la magistratura! Si creano commissioni militari per giudicare di tutto e di tutti, come al tempo degli Unni». Il 19 luglio 1860 il segretario della Società Nazionale cosi scrive a Giuseppe Clementi: «I bricconi più svergognati, gli usciti di galera per furti e ammazzamenti, compensati con impieghi e con gradi militari. La sventurata Sicilia è caduta in mano di una banda di Vandali». Conferma indiretta della barbarie che regna in Sicilia all'epoca della spedizione è offerta dalla letteratura siciliana. La grande letteratura italiana meridionale. Pirandello - discendente da una famiglia di rivoluzionari liberali - descrive nella novella L'altro figlio (poi trasporta sul grande schermo dai fratelli Taviani nel film Caos) le drammatiche conseguenze della liberazione dei detenuti comuni.

Nella dorata Caprera

Punto terzo: Garibaldi Cincinnato. A unità d'Italia realizzata Garibaldi non serve più. Il governo italiano, che gli è grato, nel 1874 propone di remunerare il generale «col dono d'un milione, e con la giunta d'una rendita vitalizia di 50.000 lire». Garibaldi rifiuta e così scrive al ministro Mancini il 10 dicembre 1874: «Avrei accettato il dono nazionale, qualunque sia, se non vi fosse di mezzo un Governo, che io tengo colpevole delle miserie del Paese, e con cui non voglio essere complice». Le 50.000 lire diventano 100.000, ma Garibaldi insiste nel rifiuto e così scrive al figlio Menotti il 31 dicembre 1874: «Le cento mila lire pesandomi sulle spalle come la Camicia di Nesso, ho incaricato Riboli di pubblicare la mia ultima lettera di non accettazione. Differendo io, ne avrei perduto il sonno, avrei sentito il freddo delle manette, le mani calde di sangue». Sta di fatto, commenta la Civiltà Cattolica che descrive l'episodio in Cronaca Contemporanea, che «Passarono men che sei mesi, e tutte queste belle cose andarono in fumo. L'eroe accettò e indossò la Camicia di Nesso», A quanto corrispondono 100.000 lire? Basti ricordare l'allegro motivetto di epoca fascista «se potessi avere mille lire al mese», tenendo conto che, dopo la prima guerra mondiale, una fortissima svalutazione riduce a nulla il potere di acquisto della lira. Scrive Francesco Merlo in chiusura di un lungo articolo comparso su Repubblica il 22 giugno: «Non si sta celebrando Garibaldi. Si sta riempiendo un vuoto». È vero: tanto rumore per dimenticare il dramma vissuto dall'Italia durante la sua supposta liberazione morale, politica ed economica. Tanto rumore per occultare un fatto: l'Italia, dopo due millenni da faro di civiltà, col Risorgimento si trasforma in un Paese di emigranti. Per chi ha a cuore la verità e, con essa, le sorti della nazione, converrebbe tener conto della realtà storica: l'Italia cattolica è sempre stata un Paese unico. Il Bel Paese per antonomasia. L'Italia anticattolica che i liberali hanno voluto edificare, viceversa, è divenuta l'Italietta, un Paese da nulla. L'8 dicembre 1892 così ammonisce Leone XIII nella lettera Custodi: «Ispiratrice e gelosa custode delle italiche grandezze fu sempre l'Apostolica Sede. Siate dunque italiani e cattolici, liberi e non settari, fedeli alla patria e insieme a Cristo e al Vicario suo, persuasi che un'Italia anticristiana e antipapale sarebbe opposta all'ordinamento divino, e quindi condannata a perire». A più di un secolo di distanza il cardinal Caffarra, rivolgendosi ai bolognesi, sembra riprendere gli stessi concetti: «Sradicarsi dalla nostra tradizione progettando una sorta di "patto di convivenza" da sottoscrivere dimenticando o mettendo fra parentesi tutto ciò che definisce la nostra vita e la nostra persona così come la vita e la storia della nostra città, significa metterci su una strada che porta alla totale disgregazione». La speranza - prosegue il cardinale - è diventata fragile: «La speranza nel cuore del singolo e nel cuore di un popolo si riduce e perfino si inaridisce, se il singolo e la città ha la sensazione come di dover ripartire dal nulla. Nel nulla si può solo cadere; ma dal nulla non si ha alcun appoggio per risalire». Se smettessimo di coprire il vuoto e riconoscessimo lo straordinario ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nella storia d'Italia? E ammettessimo che i liberali, durante il Risorgimento, sono caduti in un errore drammatico? E ci riappropriassimo con giusto orgoglio del millennio e mezzo di Italia cattolica?