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Articolo dopo articolo la legge sulle cosiddette Dichiarazioni anticipate di trattamento sta rompendo il guscio ed inizia ad emettere i primi pigolii giuridici. Dopo l'approvazione degli articoli 1 e 2, ieri Paola Binetti e Lucio Barani hanno proposto due emendamenti che hanno modificato l'art. 3 del testo in esame alla Camera.
La correzione più sostanziale riguarda la possibilità per l'estensore delle Dat, nel caso in cui in futuro versasse in stato di incoscienza, di indicare solo i trattamenti sanitari a cui vuole essere sottoposto e non più, come invece indicava il testo precedente, anche i trattamenti a cui non vuole essere sottoposto. In sintesi potremo indicare nelle DAT che, qualora ci trovassimo in stato di incapacità di intendere e volere, vogliamo ricevere alcuni trattamenti, ma non potremo più scrivere che rifiutiamo altri trattamenti.
Sebbene si tratti di un passo avanti rispetto alla versione precedente, almeno dal punto di vista teorico, rimane una problematicità di fondo. Per verificare la validità di questa modifica infatti è bene vedere se è efficace, cioè se gli effetti previsti sulla carta poi si concretizzano in modo identico anche nei fatti. Proviamo ad esemplificare. Il sig. Rossi scrive nelle Dat che in caso di perdita di coscienza vuole i trattamenti A, B e C. Tra questi tre non figura la rianimazione. Il Sig. Rossi dopo qualche tempo ha un arresto cardiocircolatorio e non viene rianimato perché espressamente non aveva indicato la rianimazione. In termini giuridici è silenzio diniego: se voleva quel trattamento lo avrebbe scritto, non inserirlo nelle DAT significa rifiutarlo. Non vogliamo dire che tutti i medici e giudici (in caso di vertenza) potrebbero interpretare in tal modo questo nuovo articolo 3, ma chi lo facesse potrebbe trovare una legittimazione giuridica nell'istituto del silenzio diniego.
Vero è che tale istituto ha le sue radici teoriche in ambito amministrativo e non può valere per i diritti personalissimi, ma l'esperienza ci insegna che gli ideologici della dolce morte non vanno tanto per il sottile quando si tratta di sostenere le proprie tesi. Vero è poi che qualcuno farebbe notare che l'art. 2 al comma 9 prevede che il consenso – scritto o non scritto – non è rilevante al verificarsi "di un evento acuto", e un infarto è sicuramente un evento acuto. Però, anche in questo caso, chi ci dice che qualche zelante giudice non potrebbe affermare che vale di più ciò che c'è scritto – o non scritto in questo caso – nelle DAT rispetto a ciò che prevede in modo generale e astratto una norma. Carta canta, verrebbe da dire. In termini giuridici potrebbe trattarsi cioè di una scriminante.
Proponiamo un secondo esempio. Il sig. Rossi facendosi beffe di quello che prevede il nuovo art. 3 decide di scrivere nero su bianco che comunque non vuole la rianimazione. Per il fatto che esiste una norma che vieta nelle Dat il rifiuto di trattamenti sanitari, il rifiuto del sig. Rossi sarebbe da considerarsi inesistente? No. Per aver questo risultato chi ha proposto gli emendamenti avrebbe dovuto aggiungere l'espressione tamquam non esset, cioè "come se questo rifiuto non fosse mai esistito". Altrimenti sempre un zelantissimo azzecagarbugli forense potrebbe trovare il modo di assegnare al rifiuto del sig. Rossi qualche valore giuridico.
Cosa ci insegna questo nuovo episodio della saga sulla legge sul cosiddetto fine-vita? Che la materia è troppo delicata e complicata per essere maneggiata dalle ruvide mani del diritto che per sua natura tratta i casi generali e guarda al futuro. In merito alle generalità dei casi appare evidente che sono troppe le casistiche tra loro diversissime che dovrebbero confluire, nell'intenzione dei promotori del Ddl, sotto l'ombrello disciplinato da questo disegno di legge. E qualche fattispecie, anzi, più di una scappa anche alla previsione normativa più sicura e attenta che possa esistere.
In merito poi alla capacità predittiva che deve avere un testo normativo questa caratteristica cozza con la fisiologia delle Dat. Come spesso giustamente si appunta le Dichiarazioni anticipate decidono ora per il futuro, un futuro che è impossibile da prevedere nei minimi dettagli, quei dettagli che fanno la differenza tra la vita e la morte, quei dettagli che sono il pane quotidiano dei medici, che vanno analizzati e soppesati nel momento presente, tra specialista e paziente guardandosi negli occhi.
Le Dat, e le leggi che vogliono disciplinare questo documento, non potranno mai avere la forza di incarnarsi perfettamente nel contingente fatto di quadri clinici pieni di nuances particolarissime, di terapie forse sperimentali e imprevedibili al momento dell'estensione delle Dat, di combinazioni tra farmaci la cui efficacia in quel determinato paziente potrà verificarsi solo dopo la terapia (pensate alla chemioterapia), di situazioni psicologiche inaspettate, di incontri professionali anche fortuiti che accendono la speranza.
Le leggi e le Dat non sono fatti di lacrime e attese, di delusioni e gioie, tutte situazioni al contorno che influiscono se non determinano il consenso o il rifiuto di alcune terapie, tutti stati emotivi e psicologici che nascono e vivono nell'hic et nunc (qui ed ora) e che non possono essere previsti e vissuti in pienezza su un bianco pezzo di carta bollata. Insomma la discussione intorno a questi nuovi emendamenti è la prova provata che la vita è ben più grande di qualsiasi norma giuridica.
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