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La Liturgia odierna propone alla nostra attenzione un singolare passo del Vangelo di Matteo. Si tratta dei primi versetti del capitolo 23, che – nel suo insieme – costituisce una dura invettiva contro i giudici di Israele e contro l'ipocrisia dei farisei. È il discorso più violento del Signore in cui Egli denuncia, senza addolcimenti di sorta, i principali vizi e depravazione degli scribi e dei farisei.
Il Signore parte dal riconoscimento dell'autorità: «Sulla cattedra di Mosè – dice – si sono seduti gli scribi e i farisei» (ivi, 2). Mosè infatti aveva consegnato la Legge ricevuta da Dio al popolo d'Israele. Gli scribi, appartenenti per lo più al partito dei farisei, avevano il compito d'insegnare la Legge mosaica al popolo. Ecco perché si diceva che erano seduti sulla cattedra di Mosè. Il Signore riconosce la loro autorità, ma mette in guardia il popolo dalla loro condotta di vita perché «dicono e non fanno». Diversi anni dopo s. Paolo, provenendo da famiglia di farisei, lancerà loro un'invettiva analoga a quella di Gesù: «Ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che proibisci l'adulterio, sei adultero? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge? Infatti il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra i pagani come sta scritto» (Rm 2,21-24).
L'osservanza della Legge da parte dei farisei si riduceva a mero formalismo e fanatica ostentazione. Gesù non esita a svelarlo quando denuncia che «tutte le loro opere fanno per esser ammirati dagli uomini» (Mt 23,5), come allargare i filatteri e allungare le frange. I filatteri erano strisce di pergamena sulle quali erano scritte quattro sezioni della Legge. Chiusi in apposite custodie, venivano legati sulla fronte e sul braccio sinistro. Per ostentare l'osservanza della Legge, i farisei li facevano di proporzioni più grandi, come pure allungavano le frange del mantello che, nel simbolismo ebraico, rappresentavano i Comandamenti di Dio.
Così pure il desiderio dei primi posti e dei saluti nelle piazze (ivi, 6-7) o l'esser chiamati rabbi o maestri (ivi, 8-10) risponde solo ad una brama di onore e di potere così lontana dallo spirito di servizio con cui ogni autorità deve esser esercitata se vuol essere conforme al Vangelo di Cristo: «Il più grande tra voi sia vostro servo – ammonisce perentoriamente il Signore –; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato» (ivi, 11-12).
Contro la brama di onori manifestata dai farisei, il Signore, a chi vuol davvero esser suo discepolo, raccomanda di non farsi chiamare né "padre" né "maestro". Con ciò Egli non vieta che ci si possa chiamare "maestro" o "padre", purché lo si faccia nella consapevolezza che si può esser appellati tali solo come rappresentanti dell'unico Maestro divino e del Padre di tutti. Vieta invece l'uso dei termini "padre" e "maestro" per solo desiderio di fatuo onore e di umano prestigio.
Quanta chiarezza meridiana in queste parole del Signore! Con questi aspri rimproveri rivolti agli scribi e i farisei – rimproveri che continuano con le non meno sferzanti "sette invettive" contro di loro – Gesù mostra che il linguaggio "politicamente corretto", oggi così di moda, non ha nulla di evangelico. Il Signore ha denunciato vizi e peccati di scribi e farisei, ben sapendo che quelle invettive, eccitando il loro livore, lo avrebbero condotto alla morte. Dinanzi alla manipolazione della verità, operata da scribi e farisei, il Signore non tace, non ha rispetto umano e non è diplomatico. Queste caratteristiche della predicazione di Gesù dovrebbero esser riprese ai nostri giorni in cui viene predicato con fin troppa eloquenza il Gesù delle Beatitudini e della Risurrezione, mentre è gettato nel dimenticatoio il Gesù delle "sette invettive" e della Passione. Non si può leggere il Vangelo con le censure di ciò che è scomodo. Così facendo si deturpa la Parola di Dio. Essa invece va letta e commentata in una saggia visione d'insieme, senza escludere nulla, per tentar di comprendere al meglio il nostro Dio, Padre amoroso ma anche Giudice giusto. La pedagogia di Dio, infatti, non muta: «Cristo è lo stesso – ammonisce s. Paolo – ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8).
Un'eloquente conferma ci è offerta, a questo riguardo, da Padre Pio da Pietrelcina che, in una sconcertante visione del 1913, vide un gruppo di sacerdoti, equivalenti – potrebbe dirsi – agli "scribi e farisei" del tempo di Gesù. Nella visione Gesù era in un mare di dolori. Quando Padre Pio gli chiese quale fosse la causa di quell'amara sofferenza, «il suo sguardo si riportò verso quei sacerdoti [poco prima descritti, ndr]; ma poco dopo, quasi inorridito e come se fosse stanco di guardare, ritirò lo sguardo ed allorché lo rialzò verso di me – racconta Padre Pio –, con grande mio orrore, osservai due lagrime che gli solcavano le gote. Si allontanò da quella turba di sacerdoti con una grande espressione di disgusto sul volto, gridando: "Macellai!". E rivolto a me disse: "Figlio mio, non credere che la mia agonia sia stata di tre ore, no; io sarò per cagione delle anime da me più beneficate in agonia sino alla fine del mondo [...] L'ingratitudine ed il sonno dei miei ministri mi rendono più gravosa l'agonia [...] Ciò che più mi affligge è che costoro al loro indifferentismo aggiungono il loro disprezzo, l'incredulità. Quante volte ero lì per lì per fulminarli [...]"» (Epistolario I, pp. 350s).
Da queste parole, che non hanno bisogno di commento, si comprende bene che il Gesù delle invettive contro i farisei è lo stesso che si manifestò a Padre Pio ed è lo stesso che noi oggi adoriamo nelle nostre chiese.
A noi far tesoro delle sue parole che son parole di Vita eterna, parole che, se percuotono e feriscono, è perché vogliono salvare e santificare.
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