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PER ESSERE BUONI GENITORI NON SERVE UNA TECNICA
E' sul lavoro su noi stessi che si fonda quello educativo (e non vanno risparmiate ai figli tutte le sofferenze e le frustrazioni)
di Costanza Miriano
 

Mi hanno chiesto qua e là – non schiere di gente, per carità, ma qualcuno sì – di scrivere, dopo quello per le mogli e quello finto per i mariti (è sempre per le mogli), un libro sull'educazione dei figli. Non so cosa nella mia condotta possa avere indotto in qualcuno lo strampalato pensiero che io sia una educatrice decente. Io da parte mia, pur mettendocela tutta, prima di sbilanciarmi aspetterei una venticinquina d'anni (ammesso che sopravviva allo stress di tutti i colloqui con i professori che ancora mi separano dal camposanto).
Comunque, poiché venerdì scorso sono stata invitata a parlare di questo all'ICEF da Pippo Corigliano (è l'amicizia che induce in lui una stima esagerata nei miei confronti), e poiché la cara amica Sabina mi ha chiesto di fare un riassunto, ecco tre o quattro spunti di riflessione che ho messo insieme per la serata, cercando di darmi un tono.
Se calcoliamo, ottimisticamente, che io e mio marito abbiamo sbagliato una sola volta al giorno con ciascuno dei figli, siamo già attestati ben oltre i tredicimila errori educativi. Le madri e i padri, anche quando ce la mettono tutta, sbagliano. Le madri e i padri non sono perfetti, e questa è una buona notizia, perché ci libera dall'ansia di prestazione. Ma la notizia ancora più bella è che noi non siamo i principali attori del processo educativo: il vero Padre è in cielo, ed è Lui che fa il lavoro vero, quello della storia della salvezza dei nostri figli, lavoro che essendo una storia non dura solo un attimo (sennò si chiamerebbe fotografia della salvezza).
L'altra buona notizia è che per essere buoni genitori non serve avere appreso una buona tecnica, ma è necessario essere buone persone, e per essere buone persone (e felici) è necessario essere buoni cristiani. È sempre sul lavoro su noi stessi, dunque, che si fonda quello educativo.
I bambini sono, come li chiama Edith Stein, "adorabili tiranni": tendono cioè a ottenere il massimo del piacere col minimo sforzo. D'altra parte la loro anima è anche "naturaliter christiana": hanno scritto nel profondo il senso del bene e del male. C'è insomma in loro, proprio come in noi grandi, il dualismo di cui parla San Paolo nella lettera ai Romani, nel famoso passo: "non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio".
La nostra vita, quella dell'uomo, è dunque un allenamento – portare a termine la corsa, combattere la buona battaglia – un lavorare su noi stessi per far morire la parte umana, e far fortificare la vita di Dio in noi, che è il senso del Battesimo, la possibilità di diventare figli di Dio. Noi possiamo fornire ai figli i rudimenti di questo lavoro che però poi anche loro devono fare da soli, proprio come noi. Allenare i loro muscoli, rafforzarli. E quindi mettere delle regole, avere il coraggio di non risparmiare loro tutte le sofferenze e le frustrazioni.
La cosa fondamentale, infine, il cuore del lavoro educativo è introdurre i nostri figli al senso del sacro, mostrare loro che c'è qualcosa di davvero sacro, e che in quest'arca misteriosa si può entrare, in punta di piedi ma si può davvero, da quando Gesù è venuto. Il punto di Archimede della storia è lui, l'unica via verso la presenza santa e inaccessibile di Dio. Per questo è importante parlare di lui ai bambini con serietà, non dipingendolo come un bambinello biondo, melenso, ridicolo, poco più di un pupazzetto. E poi cercare di favorire incontri con persone significative, con qualcuno che porti anche a loro come è stato per noi l'annuncio della fede.
A un certo punto poi bisogna assumersi il rischio educativo, avere il coraggio di lasciarli sperimentare, di stare in panchina senza entrare in campo anche quando si vede chiaramente che i figli stanno sbagliando, col cuore sanguinante in mano, quando non c'è altro da fare che aspettare e pregare.
Qui la mia saggezza si ferma, perché a questa fase non ci sono arrivata, e davvero qui la mia è solo teoria, solo nobili parole (lo so già che pedinerò i figli appostandomi agli angoli con impermeabile e baffi finti). Volevo però citare il passo del Vangelo di Luca, in cui tornando da Gerusalemme Maria e Giuseppe perdono Gesù, perché lo credono insieme al resto della carovana, al sicuro. Anche i nostri figli a un certo punto possono perdersi, quando noi li crediamo al sicuro con il resto della carovana, cioè con i coetanei. Volevo citarlo, dicevo, ma non l'ho fatto perché prima di me di questo aveva parlato con la massima competenza uno straordinario sacerdote, don Ugo Borghello, che da una vita fa il direttore spirituale proprio di ragazzi adolescenti, e che nonostante i suoi settantasei anni è sicuramente parecchio più giovane di me. Sarà la vicinanza con i ragazzi. Su di lui un altro post.
Infine ha tirato le conclusioni Emilio Fatovic, rettore del Convitto nazionale, che ha parlato del suo ruolo con grande energia, saggezza, trasporto. È un uomo che ha fatto del lavoro educativo tutta la sua vita (da maestro elementare, a professore delle medie, poi del liceo, poi vicerettore, infine il ruolo più alto) e che continua con passione a insegnare ai suoi ragazzi a essere curiosi, a sognare, e a perseverare nel sogno. Quando era bambino, orfano, allievo a sua volta del convitto, sognava di diventare rettore, forse perché il suo era stato per lui come un padre. Ha perseverato, lavorato, e ha realizzato il sogno. Mi ha fatto venire voglia di tornare a scuola. Stesso effetto anche a Pippo Corigliano. Ma, come ha detto lui, bisogna prima vedere se superiamo il test di accesso.

 
Fonte: Blog di Costanza Miriano, 26/11/2012