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Si è tenuto, in Svizzera, un ennesimo referendum, questa volta su una proposta dei socialisti fiancheggiati - come spesso càpita - da vasti settori di cattolici "adulti" e "aperti". Ciò che si chiedeva era l'approvazione di una legge federale che mettesse un tetto agli emolumenti dei dirigenti delle aziende elvetiche: si voleva, cioè, che gli stipendi mensili dei manager, anche i più elevati in rango, non superassero lo stipendio annuo del lavoratore con lo stipendio minimo. Insomma, al massimo un rapporto da 12 a 1 tra i più e i meno retribuiti.
Malgrado ogni smentita della storia, continua, dunque, quella ossessione di egualitarismo economico, di presunta "giustizia sociale" che tanti disastri ha provocato, malgrado l'aspetto edificante. Quell'aspetto tanto nobilmente buono da aver sedotto e continuare a sedurre anche tanti credenti. Per fortuna della Svizzera, il buon senso elvetico ha respinto la proposta. Vale la pena di rifletterci un momento, in nome del realismo non solo elvetico ma anche cristiano. Innanzitutto, c'è qui la solita, tenace tentazione dello statalismo, tentazione nefasta e che porta non alla libertà ma al suo strangolamento e sbocca infine nel totalitarismo. Quell'ideologia, cioè (rossa o nera, comunista o fascista che sia) che vuole che lo Stato sia onnipotente e il cittadino un suddito di una divinità che avrebbe il potere di stabilire e imporre anche l'etica da seguire obbligatoriamente. In effetti, in una prospettiva non totalitaria, con quale diritto lo Stato può violare l'autonomia di una azienda privata alla quale sola compete di stabilire quanto "valga" il lavoro di coloro che la dirigono? Gli investimenti economici di una impresa, in un regime non alla sovietica, hanno per soli giudici i proprietari o gli azionisti. Solo loro hanno il diritto di stabilire se sia giustificato, e in quale misura, l'investimento economico sui loro dirigenti.
Non si dimentichi che, nel libero mercato che ormai coinvolge tutti i Paesi sviluppati, vale - piaccia o no alle anime belle - la concorrenza non soltanto per le merci ma anche per le persone: i manager, per l'amministrazione, e i tecnici, per la produzione, che hanno dato sul campo le prove migliori sono disputati dalle aziende. C'è, su questi specialisti, una sorta di asta: naturalmente, l'azienda che se li assicura è quella che offre le condizioni migliori. Con un tetto alle ricompense, tetto addirittura stabilito da una legge dello Stato, si andrebbe verso quell'appiattimento che ha causato l'impotenza e, alla fine, la resa e la totale, definitiva rovina dei regimi barricati dietro la cortina di ferro. Tra l'altro, è certo che l'illegalità, in Svizzera, sarebbe aumentata poiché si sarebbero cercati e messi in atto modi occulti e clandestini per aumentare gli stipendi imposti per legge.
Ma ciò che ha spaventato ancor più la maggioranza degli elettori svizzeri è quanto sarebbe immediatamente avvenuto se gli edificanti Apostoli - socialisti e cattolici - della Giustizia Sociale avessero vinto al referendum. La Svizzera, come si sa, con le sue istituzioni solide, con la sua burocrazia snella, con il suo sistema fiscale equo e non di rapina come il nostro, è stata scelta da molte grandi aziende, spesso di livello mondiale, come sede di direzioni generali e di impianti di produzione. Se si fosse imposto lo statalismo etico, la conseguenza immediata sarebbe stata l'esodo verso altri Paesi, dove non fosse il governo a stabilire il valore del lavoro dei dirigenti. Tra costoro, infatti, chi avrebbe accettato una retribuzione di poche migliaia di franchi, quando ovunque nel mondo avrebbero potuto guadagnare, per lo stesso lavoro, quantità ben più elevate di dollari o di euro? Sarebbero bastati pochi chilometri per trasferire tutto nella confinante Austria, o nel Lussemburgo, magari in Olanda, Paesi dove (almeno sinora) il guadagno legale non è considerato una colpa e il merito professionale è riconosciuto per quel che vale. Risultato: l'esodo dei "ricchi" avrebbe comportato maggior povertà per i "poveri", intendendo per questo i lavoratori delle aziende che avrebbero traslocato direzioni e fabbriche verso lidi più liberali, lasciandosi dietro una folla di disoccupati.
Per continuare con il doveroso realismo: quanto più denaro circola, tanto più possono goderne anche quanti ne hanno meno. Chi ha notevoli introiti alimenta, con le sue spese, anche una fitta rete di negozianti, soprattutto di fascia superiore, di artigiani, di operai, di personale di servizio. Naturalmente, tutta gente che avrebbe potuto consolarsi della rovina economica o della disoccupazione pensando, edificata, che nessuno, in nessun Cantone del Paese, poteva guadagnare in un anno più di dodici volte di un operaio in un mese. La giustizia sociale in salvo!
Perché, potrà chiedersi qualcuno, perché questa riflessione su ciò che sembra solo un fatto di cronaca svizzero? Ma perché, come cristiani, può servirci per non dimenticare che (secondo la solita dialettica dell'et-et) l'ideale deve essere sempre presente ma deve al contempo confrontarsi con la realtà. Al credente è richiesta la difficile mediazione tra l'aspirazione a una società più giusta e la situazione concreta del momento. Proprio i più deboli sono sempre danneggiati, e fortemente, dall'impegno di idealisti che dimentichino la concretezza e il realismo. Vi sono troppi sforzi generosi che producono l'effetto contrario a quanto ci si proponeva.
A proposito di égalité, mi viene in mente quando i giacobini della Convenzione, all'apice del Terrore rivoluzionario, si proposero di aiutare il popolo di Parigi che moriva di fame perché la guerra civile e quelle esterne avevano falcidiato la produzione agricola e i prezzi erano saliti in modo intollerabile per molti abitanti della Capitale. Si inventò allora, e fu messo in atto per la prima volta nella storia, il "calmiere", detto dai giacobini, alla latina, "le maximum": un rimedio infallibile, secondo quegli utopisti, perché fissava in modo inderogabile il prezzo massimo al quale dovevano essere venduti i prodotti della campagna. Per chi non rispettasse il decreto, la sola ed unica misura che conoscessero Robespierre e i soci: le rasoir national, la ghigliottina. Il risultato fu che i prodotti alimentari scomparvero immediatamente e mentre prima i mercati avevano merce, seppur cara, ora non ne avevano per niente. In effetti, i contadini si rifiutavano di vendere non soltanto a prezzi inferiori a prima, ma addirittura al di sotto dei costi di produzione, visti i livelli bassi in modo irrealistico fissati da politici e burocrati "per favorire quel popolo che amiamo", come dicevano i proclami. Nacque il "mercato nero": gli agricoltori imboscavano quanto avevano e lo cedevano solo a chi pagasse prezzi altissimi, proporzionati al rischio di pena di morte che si correva. Così – in nome della uguaglianza – solo chi aveva denaro se la cavava, mentre la stragrande maggioranza dei parigini fu costretta a scoprire nuovi alimenti, come avverrà poi anche nel 1871, quando la città fu assediata dai prussiani: prima si mangiarono tutti i gatti, poi i cani, poi i topi, alla fine si diede la caccia anche ai grossi ratti che popolavano le fogne della metropoli. Come avviene per tutti gli ideologi, anche i giacobini che avevano inventato il maximum rifiutarono tenacemente la realtà: secondo le loro teorie la misura era un toccasana per le masse, perché dunque non insistere? Alla fine si arresero e Robespierre stesso, in un intervento famoso alla Convenzione, ammise che bisognava cedere a quella che chiamò, con una espressione che nessuna persona sensata dovrebbe dimenticare, la force des choses, la forza delle cose. La "forza" dei fatti, della realtà che, se sfidata, porta a risultati disastrosi.
Ma, più vicino a noi e in scala ben più grande, non dovrebbe sempre ammonirci la parabola catastrofica del comunismo, realizzato non solo da cinici politici ma anche da uomini in buona fede, desiderosi davvero di impegnarsi per una società di liberi ed eguali? I socialisti, per giunta svizzeri, vorrebbero riprovarci e molti credenti si affiancano loro, pensando così di rispondere a un appello evangelico. Ma dimenticano che, anche soltanto secondo i piccoli compendi del Catechismo, la carità è dannosa, se non è guidata dalla prima delle virtù cardinali: la sacrosanta Prudenza.
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