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L'equilibrio raggiunto dalla sintesi di san Tommaso d'Aquino (1225-1274) nel rapporto tra fede e ragione, potere spirituale e temporale, legge divina e umana non era destinato a durare a lungo. Fin dagli inizi del Trecento si registra una svolta nel pensiero politico, legata alla controversia tra il papato e il regno di Francia.
I nuovi regni e le città indipendenti iniziano a rivendicare un'autonomia che li pone in aperto conflitto con l'universalismo [ndr: l'unificazione di molti popoli sotto una guida sovranazionale unica] che aveva caratterizzato il pensiero politico da Costantino il Grande (280-337) a Bonifacio VIII (1294-1303). Si tratta di un progetto che investe e scuote i fondamenti della cultura medioevale, ponendo le premesse dell'epoca moderna.
VERSO L'INSINDACABILITÀ DELLO STATO
Il rifiuto dell'universalismo si realizza, infatti, attraverso la separazione degli ambiti che nella sintesi tomista restavano, pur nella distinzione, uniti; nella nuova visione che va affermandosi si vuole "demitizzare" il carattere sacro dell'Impero, che viene anche svuotato del significato di realtà sovranazionale. I principali interpreti di questa svolta del pensiero politico nel Trecento furono Guglielmo di Ockham (1285-1347) e Marsilio da Padova (1275?- 1343).
Per esempio, Marsilio da Padova, nella sua opera Defensor pacis, sostiene che lo Stato è una communitas perfecta, cioè una comunità autosufficiente fondata sulla ragione e sull'esperienza degli uomini. Ovviamente, lo Stato di cui parla Marsilio non è più l'Impero universale, ma lo Stato nazionale, la Signoria o il Principato. Questo Stato è una costruzione umana che assolve finalità esclusivamente terrene, senza vincoli di natura teologica o etica. Il passaggio fondamentale del processo di secolarizzazione teorizzato da Marsilio sta nel fatto che il governante deve agire secondo una legge che risulti dalla volontà del legislatore. Il vero e il giusto per Marsilio non sono infatti automaticamente nor-mativi e la legge non deve più corrispondere alle finalità della legge naturale.
Emerge già quello "spirito laico" che relega Dio in cielo per dare all'uomo l'autonomia assoluta sulla terra; proprio tale "spirito" costituisce l'anima profonda dell'umanesimo rinascimentale, che nasce con una componente politica di cui il pensiero di Niccolò Machiavelli (1469-1527) rappresenta uno dei momenti culminanti.
OGNI MEZZO È BUONO PUR DI RAGGIUNGERE LO SCOPO
Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Machiavelli legge la storia dell'antica Roma per cercare in essa una risposta ai problemi che attraversano la repubblica fiorentina spingendola alla corruzione. Il "realismo politico" spinge Machiavelli a considerare la politica come un campo di forze aperto allo scontro e alla formazione di egemonie. Mentre il pensiero politico classico aveva cercato di giudicare i fatti storici, e talvolta di guidarli, avendo come riferimento il piano dei valori morali, Machiavelli ritiene che i mezzi usati dalla politica siano in sé stessi moralmente irrilevanti, purché raggiungano lo scopo.
La dinamica interna di uno Stato viene inevitabilmente proiettata sullo scenario internazionale dove gli Stati confinanti non sono semplici spettatori, ma agenti politici tesi ad approfittare di ogni travaglio per realizzare la propria potenza che è, secondo Machiavelli, la vera sostanza e l'obbiettivo ultimo della politica.
Alla luce di questa analisi, rompendo ancora con la tradizione che aveva identificato il bene politico con la concordia, Machiavelli assegna al conflitto sociale, incanalato nelle istituzioni, un valore positivo, identificandolo con il motore della vita politica: un organismo politico che voglia conservarsi sano deve incanalare i conflitti entro meccanismi istituzionali che possano utilizzarli politicamente, impedendo alle contese di assumere carattere privato.
LA STORIA È RETTA DAL CASO
Gli uomini cercano di avere successo in un mondo ostile o indifferente, muovendosi tra altri individui fondamentalmente malvagi ed egoisti. La storia non obbedisce alla Provvidenza, ma a un ciclo di accadimenti di cui l'uomo non ha e non può avere il controllo e che non è finalizzato alla sua salvezza e al suo bene. La fortuna (sorte), che guida secondo Machiavelli gli eventi storici, coincide con il caso e, in ultima istanza, con la convinzione neopagana circa l'assenza di un senso nelle vicende umane.
Anche se la concordia non è più considerata una precondizione necessaria allo sviluppo, l'unità della società continua a essere giudicata un bene. È curioso notare come Machiavelli accusi il cristianesimo di aver depresso l'amore per la libertà e per la grandezza, per sostituirli con valori inadatti alla politica ed essenzialmente privati, come l'umiltà e la passività, quando invece avrebbe dovuto criticare l'affermazione dell'individualismo moderno (cfr. Benedetto XVI, Spe salvi, n. 16).
IL PRINCIPE DEVE USARE TUTTI I MEZZI NECESSARI
Accettato il principato, tra le possibili forme politiche, come una necessità del suo tempo, Machiavelli ne Il Principe esamina le qualità che deve possedere il principe perché la sua azione politica abbia successo. La sua tesi fondamentale è che il fine del principe consiste nell'accrescere e rafforzare il proprio dominio, impiegando tutti i mezzi necessari. Questo obbiettivo va perseguito anche a costo di perdere l'anima per salvare lo Stato: il principe deve «sapere entrare nel male, necessitato» (XVIII). Al principe che sperimenta in sé la dimensione "demoniaca" del potere, Machiavelli prospetta la perdita dell'anima invitandolo a «entrare nel male» per fronteggiare l'imprevedibile corso degli eventi e della «fortuna».
L'unico modo di dare un senso, sia pure limitato, al trionfo del caso è l'agire politico «virtuoso»: la virtù è per Machiavelli la disposizione a opporsi alla fortuna, è ciò che consente agli uomini di uscire dal loro egoismo per compiere azioni grandi e gloriose raggiungendo l'unica forma d'immortalità che deve interessare all'uomo politico: quella fondata sul conseguimento della potenza e della gloria.
DERIVE MOLTO GRAVI
Senza voler entrare nel merito del dibattito sviluppatosi nei secoli sulle teorie politiche del Machiavelli (che ha visto schierarsi estimatori e confutatori e si è praticamente concluso a partire dall'Ottocento con l'affermarsi di un giudizio quasi all'unanimità favorevole alla dottrina della "ragion di Stato"), vi sono almeno due considerazioni che è opportuno mettere a fuoco:
1) La prima riguarda le conseguenze storiche del principio dell'autonomia della politica dalla morale: «Esiste un collegamento tra il pensiero del Machiavelli, i libertini del Settecento, i giacobini, il leninismo e il radicalismo attuale. Questi atteggiamenti hanno in comune il rifiuto della legge naturale espressa nella forma del dover essere, ossia di norme aventi una validità permanente». (Alberto Torresani). L'autonomia della politica significa la sua separazione dalla morale e, alla fine, la legittimazione di ogni azione voluta da chi detiene il potere, per quanto ingiusta e terribile possa essere.
2) La seconda riguarda le ricadute negative della rinuncia all'indagine sul fine ultimo dell'esistenza umana e sui fini specifici delle singole attività. Se le vicende umane non hanno un senso e tutto è dovuto al caso, la politica non ha un fine (previo alla decisione umana) che deve guidarla e il "principe" diventa solo un "tecnico", che impiega i mezzi necessari a ottenere il risultato che si è proposto lui o che ha deciso il popolo: «quando l'uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire» si muove «all'interno di un orizzonte culturale tecnocratico [...] senza mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto. Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicista da far coincidere il vero [e il buono] con il fattibile» (Benedetto XVI, Caritas in ventate, n. 70).
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