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OMELIA PER LA V DOMENICA TEMPO ORDINARIO - ANNO C - (Lc 5, 1-11)
di Padre Antonio Izquierdo
 

La liturgia ci presenta da diverse prospettive il tema della vocazione, della chiamata di Dio a predicare nel suo nome. Il profeta Isaia ha una visione nel tempio, sente la presenza di Dio, sperimenta la sua santità e il santo timor di Dio, ed ascolta la chiamata: 'Chi manderò e chi andrà per noi?'. Con animo coraggioso e deciso risponde: 'Eccomi, manda me!' (prima lettura). Nel vangelo, invece, contempliamo la vocazione di Pietro che, avendo pescato per tutta la notte senza aver preso un solo pesce, si affida al Signore e torna in mare aperto per lanciare ancora le reti. Gesù gli dice: 'Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini' (seconda lettura). Paolo, nella seconda lettura, ci si presenta come colui che dà testimonianza di Cristo, che con semplicità e fermezza proclama che Gesù è morto per i nostri peccati ed è resuscitato il terzo giorno. Tre vocazioni, ma una stessa realtà: la chiamata di Dio a predicare il vangelo.
MESSAGGIO DOTTRINALE
1. Il timore del Signore. Nella prima lettura viene sottolineata in modo speciale la santità di Dio. Isaia, scorgendo in visione il Signore ed i serafini, si crede perduto. Sa di essere un uomo impuro, che abita in mezzo ad un popolo impuro, perché, infatti, chi può proclamarsi senza peccato davanti a Dio? Questa visione ci aiuta a meditare sul timore del Signore. La Sacra Scrittura ci dice che il principio della saggezza è il timore del Signore (Salmo 111,10; Pr 1, 7; Pr 9, 10). Ma cosa significa timor di Dio? Sembra che sia difficile comprenderlo per la nostra mentalità moderna. Tentiamo di spiegarlo: la possibilità di peccare e allontanarci da Dio appartiene alla nostra fondamentale condizione naturale. Da ciò deriva un giusto ed ordinato timore: violando la legge di Dio, posso diventare pericoloso per me stesso e per i miei fratelli. Posso perdere Dio. L’educazione cristiana, pertanto, non deve mirare ad annullare del tutto il timore — perché andrebbe contro la natura stessa della persona umana —, ma piuttosto ad orientarlo e dargli il suo vero significato. Si tratta di purificare il timore, di collocarlo nel suo giusto posto ed integrarlo con la speranza e con l’amore, in modo che lo stesso timore sia una protezione e un aiuto. Così maturano il vero slancio e l’ardimento, dei quali l’uomo non avrebbe bisogno, se non ci fosse il timore. Quando si elimina il santo timor di Dio sorgono nell’uomo molte altre paure irrazionali: paura del futuro, paura delle malattie contagiose, dei progressi tecnologici... Da qui emergono molte inquietudini.
Perciò, per chi ama Dio, l’unico vero pericolo è il perderlo, perdere Dio. Il timor di Dio è quello che spunta quando si scopre Dio stesso come santo e al contempo come misericordioso e vicino, e si sperimenta davvero la disgrazia di poter perderlo. È l’incontro con Dio, che è amore infinito. Questo sperimentò Isaia nella lettura che oggi leggiamo. La santità di Dio lo colmò totalmente, sentì la sua pochezza e miseria, provò quel che potrebbe essere perdere Dio, ma si affidò proprio a quel Dio che lo chiamava a predicare la sua parola. Questo sperimentò Pietro che davanti al mistero di Gesù e alla sua stessa indegnità esclamò: 'allontanati da me che sono un peccatore'. Santo timor di Dio! Santo timor di Dio che viene ricambiato dalle parole: 'Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini'.
Il cardinal Ratzinger commenta al riguardo: 'L’assenza del timor di Dio è il principio di ogni follia. Dove non regna più il timor di Dio che ha il suo luogo proprio all’interno dell’amor di Dio, l’uomo perde la sua misura; il timore degli uomini assume il dominio su di lui, così giunge all’idolatria delle cose che sono apparenti (non vere), e si apre la porta a qualunque sproposito' (J. Ratzinger, Guardare Cristo, Jaca Book, Milano 1989, p. 70).
Una definizione del timor di Dio potremmo darla con Romano Guardini: 'Timor di Dio non significa aver paura di Dio, bensì sperimentare in Lui il Santo (la santità); l’inaccessibile eppure vicino; ... Perciò, (il timor di Dio) significa fuggire impauriti da tutto ciò che è contrario a Dio; ma allo stesso tempo fidarsi di Lui, senza limiti, molto più che di qualsiasi altro potere finito' (Romano Guardini, Wahrheit und Ordnung 3, München, 1995 p.75). Questo è proprio ciò che fecero Pietro, Paolo ed Isaia. Ognuno in modo particolare e in diverse circostanze. Ognuno scoprì la sua personale vocazione e si consolidò nella fiducia e nella sicurezza di se stesso.
2. Gesù Cristo morì per i nostri peccati ed è risuscitato il terzo giorno. Nel capitolo 15 della lettera ai Corinzi, Paolo analizza il tema della resurrezione. Molti corinzi trovavano difficoltà a comprenderlo. Alcuni si credevano già totalmente salvi, altri pensavano alla resurrezione come un ritorno alla vita nello stesso stato, il che risultava ripugnante. Paolo annuncia il dogma cristiano: 'Cristo morì per i nostri peccati (...) fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno'. Questo annuncio solenne rivolto ai Corinzi è una verità fondamentale della nostra fede: Cristo è morto per i nostri peccati. Quando noi eravamo nel peccato, Egli, il Giusto, ha dato la sua vita per noi. Con la sua morte e resurrezione ha sconfitto il diavolo, ha vinto il peccato, ha debellato la morte e ci ha aperto le porte del cielo. Ci ha riconciliati col Padre. Si afferma così solennemente la verità della resurrezione. Da qui nasce tutto l’amore che il cristiano ha per Cristo, vero Dio e vero uomo. Il Figlio unigenito del Padre che si rivestì di umanità per riscattarci dai nostri peccati.
SUGGERIMENTI PASTORALI
1. L’insegnamento religioso. Viviamo tempi di profondi e vertiginosi cambiamenti. Sembra che queste trasformazioni siano sempre più rapide della nostra capacità di adattarci ad esse. Ciò ha le sue inevitabili ripercussioni sulla vita di fede. In passato la fede veniva trasmessa nell’ambito familiare, scolastico e parrocchiale in modo naturale. C’era, per così dire, un ambiente favorevole e tutto contribuiva ad una trasmissione della fede quasi per osmosi. Oggi, invece, non è così. Il mondo cammina molto rapidamente, le nozioni di fede continuano a diminuire nei nuovi genitori che a loro volta, li trasmettono in modo incompleto e difettoso ai loro figli. Questo panorama non deve scoraggiare nessun cristiano, ma piuttosto deve spingerlo a raccogliere la sfida dei tempi e ad intraprendere una nuova catechesi coi moderni mezzi che la tecnologia ci offre. Anche i primi cristiani vivevano in un mondo pagano, come noi oggi; anche loro subivano attacchi, come noi oggi; anche allora c’erano eresie e dissensi interni, come quelli che attraversano oggi la Chiesa. Intraprendiamo l’appassionante compito di comunicare il vangelo con tutti i nostri mezzi: partecipiamo all’azione parrocchiale aiutando nella catechesi, nell’animazione liturgica; avviamo piccole o grandi pubblicazioni all’interno della parrocchia o negli ambienti familiari; creiamo iniziative di azione sociale, aiutando i più bisognosi, visitando i malati o aiutando i poveri; partecipiamo alla vita pubblica per rendere presenti i valori e i simboli cristiani. "Ciò che è l’anima per il corpo, sono i cristiani per il mondo", diceva la lettera a Diogneto.
2. L’amore personale per Cristo. I primi cristiani, nonostante i tempi difficili, vissero una fede viva, nitida, meditavano profondamente quelle parole di Paolo: "Cristo morì per i nostri peccati...". Cristo era la loro forza, la loro verità, la loro ragione di vivere e di morire. Lo sapeva bene Policarpo di Smirne che, essendogli stato intimato di rinnegare Cristo, diede questa testimonianza: "Sono 80 anni che lo servo e non mi ha mai fatto del male, perché devo rinnegarlo?". Diamo vita, proprio come quei primi cristiani, ad una nuova catechesi. Incominciamo in casa nostra, coi nostri figli, fratelli e parenti. Quanto è importante per i figli vedere i loro genitori pregare e fare la comunione! Quanto si può fare in quella piccola Chiesa domestica che è la famiglia!

 
Fonte: Sacerdos, (omelia per il 7 febbraio 2010)