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La favola della "tregua olimpica" è bellissima. Ma trattasi, appunto, di una favola. Ai Giochi invernali di PyeongChang Nord e Sud hanno sfilato insieme sotto un'unica bandiera e alle gare di hockey femminile hanno presentato un'unica squadra (con pessimi risultati). Il regime di Kim Jong-un ha inviato 400 persone tra atleti, tifosi e artisti, oltre alla sorella Kim Yo-jong, ambasciatrice di pace, con un codazzo di funzionari e guardie del corpo al seguito. Per l'occasione Pyongyang ha invitato ufficialmente nel Nord il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in, per approfondire il dialogo tra i due paesi, colloqui che potrebbero estendersi in qualche modo perfino agli Stati Uniti. Moon spera infatti che tutto questo porterà a «un miglioramento nei rapporti tra le Coree e, spero, anche con gli Usa». Fantastico. Ma chi paga?
La domanda è importante, soprattutto per i sudcoreani. Secondo un sondaggio di Gallup Korea, il 90% di loro è convinto che Kim non rinuncerà mai alle armi nucleari. Un altro sondaggio riportato dal New York Times ha poi certificato che il 72% dei sudcoreani «non è entusiasta» all'idea di una squadra unica ai Giochi. Ad opporsi sono soprattutto i giovani 20-30enni e il primo motivo di un simile atteggiamento è storico. I trentenni sono nati una generazione intera dopo la fine della guerra e non si sentono più legati a chi vive a nord del 38° parallelo. La riunificazione non è più una priorità.
TREMILA MILIARDI DI RAGIONI
La seconda ragione della freddezza dei giovani nei confronti della "tregua olimpica", che tutto il mondo si augura preludio a una futura riunificazione della Penisola, è economica. Secondo alcune stime, la riunificazione costerebbe almeno tremila miliardi di dollari (mille miliardi in più di quella della Germania) ed è chiaro che la maggior parte di questa cifra dovrebbe pagarla Seul, vista la povertà diffusa della popolazione sotto il regime comunista. Il tema economico però è molto sentito nel Paese, se è vero che come certifica Gallup Korea il 62% dei giovani ritiene addirittura che il Sud non dovrebbe più dare aiuti umanitari al Nord, fino a quando questo non smetterà di minacciare attacchi nucleari. I giovani poi ritengono in maggioranza che il Governo, invece che pensare a come blandire il dittatore Kim, dovrebbe piuttosto risolvere il problema della disoccupazione giovanile, che per la prima volta ha superato nel paese il 10%.
PAGA SEUL
La domanda "chi paga" dunque è molto importante e la risposta non piacerà ai sudcoreani. Seul infatti ha dovuto sborsare tre milioni di dollari per ospitare 22 atleti (solo due di loro gareggiavano per meriti sportivi e non per convenienza politica), 21 giornalisti, l'esercito delle 229 cheerleader, un'orchestra da 140 elementi, un team dimostrativo di taekwondo e tutto il personale a sostegno. Il costo è dovuto soprattutto al vitto e all'alloggio di circa 400 persone in costosissimi hotel a cinque stelle. Ma nella cifra non rientra la spesa per ospitare la sorella del Brillante leader, accompagnata da una nutrita delegazione politica e da un corposo team che ne garantisce la sicurezza. Milioni che, senza dubbio, i giovani avrebbero preferito spesi in altro modo. Non è un caso se nell'ultimo mese il gradimento del presidente cattolico Moon, finora sempre sopra il 77%, è sceso rapidamente al 64%. La "tregua olimpica", come ribadito da Moon, è una favola bellissima, ma ai sudcoreani non piace per niente.
Nota di BastaBugie: Leone Grotti nell'articolo sottostante dal titolo "Io, nato in un gulag in Corea del Nord, vi racconto l'orrore delle esecuzioni pubbliche" rivela la testimonianza di Park Ju-yong, scappato in Corea del Sud dopo 23 anni in un lager.
Ecco dunque l'articolo completo pubblicato su Tempi il 19 gennaio 2018:
«Sono fortunato, ho assistito alla mia prima esecuzione pubblica quando ero già abbastanza cresciuto. Prima mia mamma è sempre riuscita a nascondermi. Avevo già nove anni quando le guardie mi hanno obbligato per la prima volta a lanciare pietre contro un uomo condannato a morte per avere disobbedito al Leader supremo. Ci obbligavano a picchiarlo selvaggiamente e solo dopo gli sparavano un colpo alla testa». Park Ju-yong ha 29 anni e vive in Corea del Sud, ma ha passato la stragrande maggioranza della sua vita, 23 anni, nel campo per prigionieri politici di Pukchang, in Corea del Nord. Prima di scappare, ha assistito a centinaia, forse migliaia, di esecuzioni pubbliche. Non riesce a ricordare bene il numero esatto.
GULAG DI PUKCHANG
Il gulag di Pukchang, conosciuto anche come Campo 18, è diverso dagli altri. È il primo campo di concentramento mai costruito in Corea del Nord. Gestito direttamente dal ministero degli Interni, è stato edificato nel 1958 ed è aperto ancora oggi. Si pensa che vi siano rinchiuse ancora circa 50 mila persone. Nel paese potrebbero essere rinchiuse oltre 200 mila persone. Spesso i prigionieri politici, tutte le persone cioè accusate di essersi opposte in qualunque modo al dittatore, anche solo per aver guardato un film americano o letto una Bibbia, vengono inviati in altri gulag, mentre tutta la famiglia, arrestata di conseguenza, viene portata a Pukchang.
Park, la cui storia assomiglia molto a quella di Shin Dong-hyuk, non sa perché è stato portato in campo di concentramento, era troppo piccolo. Nato nel Campo 21, è stato trasferito nel Campo 18 all'età di un anno. «Credo che il motivo fosse un crimine commesso da mio zio, ma non ne sono sicuro», racconta in un'intervista esclusiva a Daily Nk, che aiuta l'ufficio preposto del governo sudcoreano a raccogliere testimonianze sugli orrori che vengono perpetrati dal regime comunista di Pyongyang. «Sono riuscito a scappare poco prima di compiere 23 anni e ricordo bene come funzionavano le esecuzioni pubbliche».
NASCOSTO IN UN BUCO
Prima di ogni esecuzione, le guardie del gulag appendevano alla porta della baracche un cartello con indicato il nome, l'età, l'altezza del prigioniero insieme alla data e all'ora dell'esecuzione. «Tutti dovevano partecipare, compresi i bambini a partire dall'età scolare. Gli insegnanti venivano informati e radunavano tutta gli alunni», continua. «Solo chi doveva compiere lavori particolari, poteva mancare. Mia madre, per proteggermi dal vedere simili orrori, cercava di nascondermi in un buco sotto le fondamenta della nostra baracca. All'inizio non capivo perché dovevo nascondermi, lo facevo e basta».
Il rito si ripeteva sempre uguale. Il condannato veniva portato sopra un palco di legno con le mani legate dietro la schiena. Una guardia spiegava perché doveva morire. «Ricordo il caso di un uomo che aveva cercato di scappare dal gulag. Era quindi accusato di avere disobbedito alla parola del Leader supremo, che fin da piccoli ci avevano insegnato a chiamare "nostro padre"», spiega Park. «Ogni esecuzione era partecipata da almeno mille persone. Le guardie facevano avanzare nei primi posti i più piccoli, perché guardassero e imparassero fin da giovani».
PRIMA I FAMILIARI
Prima che venisse fucilato dalle guardie, il condannato veniva lapidato dagli altri prigionieri. Ognuno doveva prendere in mano una pietra e scagliarla. «Le prime, però, dovevano essere lanciate dai suoi familiari. E quella era forse la parte peggiore dell'orrendo spettacolo. Dopo i familiari, toccava ai bambini e poi via via a tutti gli altri. Quando ormai il condannato era già prossimo alla morte, solo allora una guardia si avvicinava e gli sparava. Così ci facevano capire, senza neanche bisogno di dircelo a voce, che chi va contro il volere del leader non è più un essere umano».
Park non ricorda con precisione a quante esecuzioni ha assistito nella sua vita. Centinaia, forse migliaia. Poco prima di compiere 23 anni è riuscito a scappare e ora vive nel Sud. «Non so dire se cose simili accadono ancora oggi sotto Kim Jong-un. Non sono più in contatto con nessuno nel Nord, ma chi ha ancora amici sotto il regime mi assicura di sì. Si tratta di crimini inimmaginabili anche se dopo un po' di tempo ho cominciato a non farci più caso. Non provavo più alcun sentimento od emozione nel vedere la gente morire così. Ne avevo viste troppi».
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