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Mi ha incuriosito un articolo della vaticanista del «Messaggero» del 26 maggio. Riporta la tesi, di sconvolgente novità, del «noto» (?) accademico inglese Paul Dolan, docente di scienze comportamentali alla «prestigiosa» (tutto quello che è british è sempre prestigioso) London School of Economics, nel cui stemma, chissà perché, c'è un castoro. Fondata nel 1895 da membri della Fabian Society (all'erudito il piacere di indagare su questa esclusiva associazione), tra cui George Bernard Shaw (l'avversario numero uno di Gilbert K. Chesterton, tanto per intenderci), ogni tanto produce qualcosa che va, tanto per cambiare, nella direzione del «progresso».
Ora tocca alla tesi di Dolan, tesa a sfatare il mito, bigotto e reazionario, della donna che si realizza nel matrimonio. Le ricerche condotte dal professore dimostrano che le singles sono più spensierate delle sposate. Infatti, quando si fanno indagini sociologiche di questo tipo, attenzione al trucco: «Le donne sposate dicono poi di essere più felici di altre donne ma solo se il proprio marito è presente in una stanza, perché appena il marito se ne va, e a queste donne viene fatta la stessa domanda, affermano il contrario, spesso accusando il marito di essere carente in tante cose».
E c'era bisogno di scomodare équipes di intervistatori per scoprire l'acqua calda? I cattolici lo sanno da sempre che il matrimonio è un sacramento, e che i sacramenti sono vie per la Grazia. Solo nelle fiabe i due colombi che, dopo peripezie, convolano a giuste nozze «vissero felici e contenti». Se Gesù Cristo ha creato un canale speciale e apposito per il matrimonio, è perché è una situazione in cui la Grazia ci vuole, eccome. Per i cattolici è insomma una via di santificazione. La quale, perciò, non è tutta rose e fiori. Ma senza è peggio, come si può verificare dalle statistiche.
La donna single è più felice di quella sposata? Ma allora perché le singles spasimano per trovare l'anima gemella? L'immagine storica della «zitella» inacidita è solo frutto della propaganda clericale e/o maschilista nei secoli? Non c'è bisogno dei sociologi per verificare quanto segue:
a) le donne vanno al cinema per vedere il loro attore preferito; gli uomini, per vedere un film;
b) le donne che si riuniscono al ristorante o anche per l'8 marzo finiscono col parlare di uomini (o di figli se li hanno); gli uomini parlano di calcio. Ma al professore britannico risulta altro: «Da quello che a noi risulta è che i sottogruppi di popolazione più sani e felici sono quelli che non si sono mai sposati o avuto figli». Ah, sì? Allora perché questa corsa disperata al figlio a tutti costi, perfino per le coppie gay? Donde tutta questa gente che fa letteralmente i salti mortali per farsi fecondare artificialmente, e affronta viaggi, spese e pure debiti per coronare il suo sogno? Com'è che, se il matrimonio è fonte sicura di infelicità, tutti vogliono prima o poi sposarsi, perfino gli omosessuali, perfino i preti?
Teniamo presente che anche il divorzio è conseguenza di un istinto insopprimibile, quello di trovare la felicità nel matrimonio. Avete mai visto qualche divorziato o divorziata che ha gettato la spugna? C'è forse qualcuno a cui l'esperienza negativa sia bastata per smettere per sempre di cercare compagnia? Potremmo continuare, ma si tratta solo di considerazioni di buonsenso. Mica da sociologi. A meno che la somma di infelicità umana causata dal «progresso» sia ormai talmente insopportabile da richiedere «studi» rassicuranti. Come in 1984 di Orwell, tanto per cambiare: nella penuria generale cagionata dal regime, i sudditi mangiavano tavolette sintetiche, che la propaganda asfissiante convinceva a trovare gustose.
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