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Per non dimenticare tre anni di abusi di potere
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La censura di YouTube
YouTube ha censurato in passato circa il 20% dei video che abbiamo pubblicato e oggi ci impedisce di pubblicare video con temi contrari al politicamente corretto (islam, gay, covid, ecc.)
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Una cosa è certa: l'ordine esecutivo sui social firmato dal presidente Trump non costituisce assolutamente un attentato alla libertà di parola, anzi semmai è vero il contrario, ne costituisce una tutela. Ormai necessaria. In poche parole, non si vieta a Facebook, Twitter, Google e compagnia di pubblicare qualsiasi genere di testi, commenti, immagini, video; ma qualora decidessero di oscurarne o censurarne qualcuno, a loro sgradito, di sospendere gli utenti o di cancellare i loro post, ne risponderebbero, potrebbero cioè essere portati in giudizio, anziché godere di un libero e totale arbitrio com'è stato finora. La Fcc, l'agenzia centrale delle comunicazioni americana, è stata incaricata in questo senso di rivedere le regole di un gioco finora senza regole, ciò di cui i social hanno dimostrato di approfittare con spregiudicatezza ed eccessiva disinvoltura, ma, quel che è peggio, secondo modalità per nulla neutrali, né tanto meno imparziali. Al punto da pretendere di bollare come fake news persino un'opinione di Trump, limitatosi ad evidenziare il rischio di potenziali brogli nel caso a novembre, per le elezioni presidenziali americane, si votasse per posta causa Coronavirus, come paventato dal governatore della California, Gavin Newsom, guarda caso un democratico, immediatamente seguito da altri suoi compagni di partito.
DIFENDERE LA LIBERTÀ DI PAROLA
Trump ha subito fatto chiarezza, correttamente: «Siamo qui oggi per difendere la libertà di parola da uno dei pericoli maggiori», ha detto. I social «avevano un potere incontrollato», ma «non possiamo permettere che ciò accada», specie a fronte di un fact-check, di un controllo esercitato alla stregua di un discutibilissimo «attivismo politico» e morale quando non di una tifoseria sfacciata. Persino Mark Zuckerberg, fondatore ed amministratore delegato di Facebook, ha condiviso la decisione del presidente americano, affermando pubblicamente, nel corso di un'intervista: «Credo fortemente che Facebook non debba essere l'arbitro della verità di tutto ciò che la gente dice online. In generale, le società private, specialmente le piattaforme, probabilmente non dovrebbero essere nella posizione di farlo». Come finora, purtroppo, era invece accaduto. Come ben sanno molti, penalizzati per il solo fatto di aver espresso pareri, commenti, opinioni semplicemente fuori dal coro, "peggio" ancora se concordi con la morale cattolica.
Qualche esempio? Nel luglio scorso, in Francia, l'on. Emmanuelle Duverger in Ménard, credente praticante e pro-family convinta, si è vista bloccare arbitrariamente da Twitter il suo account e cancellare un suo tweet, semplicemente per aver "osato" criticare Greta Thunberg, dopo aver ascoltato il suo discorso tenuto presso l'Assemblea Nazionale. Di contro nessuno ha tutelato la parlamentare dalle minacce, anche di morte, ricevute proprio a seguito dell'opinione da lei espressa.
Due anni fa uno speciale dossier, pubblicato da Project Veritas, raccogliendo le testimonianze di numerosi dipendenti di Twitter, denunciò la sistematica censura attuata nei confronti degli iscritti più "conservatori", senza che questi potessero neppure accorgersene, tramite un sistema denominato «Blocco nell'ombra»: i post "sgraditi" o "scomodi" venivano semplicemente esclusi dalla rete, ad insaputa di tutti, da fantomatici «agenti di revisione dei contenuti».
CENSURA CONTRO I CRISTIANI
Anche Facebook non è esente da scivoloni su questo infido terreno: come nel 2018, quando bloccò la raccolta fondi per la pellicola pro-life «Roe vs. Wade», realizzata per raccontare la vera storia del caso giudiziario, risalente al 1970. A lanciare l'allarme, all'epoca, furono niente meno che due attori di Hollywood, il premio Oscar Jon Voight ed il produttore Nick Loeb.
Il fenomeno, comunque, non è assolutamente nuovo: già nel 2011 il rapporto dal titolo «True Liberty in a New Media Age: An Examination of the Threat of Anti-Cristian Censorship and Other Viewpoint Discrimination on New Media Platforms», commissionato dalla Nrb-National Religious Broadcasters con sede in Virginia, negli Stati Uniti, ha dimostrato la vera e propria censura attuata online nei confronti di qualsiasi contenuto cristiano od anche religioso più in generale.
In particolare, il rapporto ha segnalato la decisione, assunta da Apple nel novembre 2010, di bloccare l'app Manhattan Declaration solo per aver definito, in forza delle proprie convinzioni cristiane, immorale il comportamento omosessuale. Per lo stesso motivo, pochi mesi più tardi, nel marzo 2011, la Apple ha censurato anche l'app Exodus International, iniziativa cristiana dedita ad aiutare le persone ad abbandonare la propria vita omosessuale. Ed ancora, stessa sorte nel luglio 2011 nei confronti di Christian Values Network: Apple ha tolto iTunes dal portale, che contribuisce a finanziare le organizzazione caritative, accusato di esser troppo critico verso le iniziative pro-Lgbt. Sono finiti nella "lista nera" del rapporto anche Google, per essersi rifiutato di accettare una pubblicità cristiana pro-life (benché poi, citato in giudizio, sia stato costretto a fare marcia indietro ed a pubblicarla), Facebook, per aver cancellato commenti ritenuti anti-gender e per le partnership avviate con organizzazioni pro-Lgbt, e via elencando.
MARK ZUCKERBERG
In tutto questo marasma, v'è anche da prender atto delle scuse pubblicamente porte già nell'aprile 2018 dal gran patron di Facebook, Mark Zuckerberg, per la censura attuata dal suo social nei confronti dei contenuti cattolici. Nel corso della sua udienza dinanzi al Congresso americano, per rispondere dei milioni di dati personali ceduti a società terze a scopi elettorali e commerciali, Zuckerberg ammise che la sua azienda aveva «commesso un errore», bloccando l'annuncio di un corso di teologia cattolica, promosso dall'Università Francescana di Steubenville, "rea" solo di aver pubblicato l'immagine di un crocifisso, considerato «eccessivamente violento» e «sensazionalista». Di fronte a questo "atto di contrizione", il sen. Ted Cruz del Texas fece notare come su Facebook fossero state già «bloccate più di due dozzine di pagine cattoliche» e di contenuti conservatori, bollati come «insicuri per la comunità». Cruz chiese ironicamente se fossero stati rimossi, allo stesso modo, anche gli annunci di Planned Parenthood e di altre sigle abortiste.
Le scuse di allora rendono comunque meno sospetta e più credibile la difesa fatta oggi da Zuckerberg della linea adottata dal presidente Trump nei confronti dei social. V'è da sperare, senza illusioni, che si tratti di un percorso di fruttuosa presa di coscienza o addirittura di feconda conversione, quello iniziato dal fondatore di Facebook.
Questo breve elenco di fatti - elenco, che potrebbe, volendo, continuare a lungo - dimostra come il capo della Casa Bianca abbia ragioni da vendere nel porre argini, fissare paletti, istituire garanzie per tutti contro abusi ed arbitrii via web. L'ordine esecutivo di Trump dovrebbe essere approvato anche in altri Paesi. Ma, certo, per farlo occorrono leader con una coscienza...
Nota di BastaBugie: Benedetta Frigerio nell'articolo seguente dal titolo "Trump difende le chiese e prega. I vescovi lo attaccano" spiega la vera natura delle proteste che stanno danneggiando gli Usa stremati dal lockdown. Queste proteste mostrano la loro natura anti cristiana: diverse chiese sono profanate, perciò Trump è stato sui luoghi vandalizzati mostrando la Bibbia e pregando nel santuario di Giovanni Paolo II. Il presidente, però, non si deve difendere solo dalla stampa che mente, ma anche dai vescovi che giustificano gli anarchici e chi odia Dio.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 4 giugno 2020:
Mentre i media e i grandi giornali americani si ostinano a chiamare "peaceful protesters" ("manifestanti pacifici") gli anarchici che ora si sentono legittimati a distruggere negozi, derubando la merce e compiendo vandalismi di ogni tipo, alcuni leader religiosi americani sono impegnati ad indignarsi per la foto che ritrae il presidente degli Stati Uniti con la Bibbia in mano, stracciandosi la tonaca per il fatto che l'altro ieri Trump si è recato a pregare con la first lady al Santuario di Washington dedicato a Giovanni Paolo II.
«Trovo sconcertante e riprovevole che qualsiasi struttura cattolica si permetta di venire così egregiamente abusata e manipolata in un modo che vìola i nostri principi religiosi...il papa san Giovanni Paolo II... certamente non perdonerebbe l'uso di gas lacrimogeni e altri deterrenti per zittirli, disperderli o intimidirli (i manifestanti, ndr) pur di farsi fotografare di fronte ad un luogo di culto». Sono queste le parole con cui il vescovo della capitale, Wilton Gregory, ha rimproverato il santuario diretto dai Cavalieri di Colombo.
Si potrebbe pensare ad un'attenuante, che i vescovi stiano dalla parte dei neri discriminati, facendo ingenuamente di tutto un fascio l'erba dell'omicidio di George Floyd. Si potrebbe anche credere che siano convinti dai media che Trump abbia ordinato di usare lacrimogeni contro la folla pacifica, si potrebbe pensare che non abbiano letto per intero il discorso con cui il presidente Usa condanna duramente l'assassinio di Floyd, invitando però a non sfruttare l'accaduto per distruggere l'America già provata dal recente lockdown. Ma ci sono dei fatti che non possono non essere noti ai leader religiosi. Fatti che rendono ingiustificabili le loro posizioni.
La stessa Catholic News Agency ne ha parlato: oltre ai negozi, alle vetrine, ai monumenti, i manifestanti hanno preso di mira in modo particolare le chiese del paese. È accaduto, oltre che a Washington, in California, Minnesota, New York, Kentucky, Texas e Colorado. Sui muri della cattedrale di Denver, ad esempio, i "manifestanti pacifici" hanno scritto così: «Pedofili», «Dio non esiste», «Dio è morto». Sono poi stati disegnati simboli contro la polizia e contro la fede. L'edificio è anche stato preso a sassate nell'intento di spaccare le finestre.
Perfino la splendida cattedrale di St. Patrick, nel centro di New York, è stata imbrattata, mentre a Dallas, le finestre della cappella di Saint Jude sono state distrutte. Stessa sorte è toccata alla libreria della congregazione religiosa delle "Daughters of St. Paul", chiusa dopo un attacco dei manifestanti, costringendo le suore a rimuovere il tabernacolo dalla cappella adiacente all'edificio. Non solo, la canonica della cattedrale dell'Assunta di Louisville è stata danneggiata dal lancio di massi e a Minneapolis la basilica di Saint Mary ha rischiato di essere incendiata dopo che era stato appiccato il fuoco sotto una panca. Infine, è stata imbrattata la cattedrale maronita di Nostra Signora del Libano a Los Angeles.
Ma i pastori, pur di accusare Trump, lo rimproverano per aver pregato in chiesa, inginocchiandosi in un cappella davanti alla reliquia di san Giovanni Paolo II e all'immagine della Madonna polacca di Czestochowa, o per aver mostrato la Bibbia come richiamo alle radici religiose degli Stati Uniti, difendendo invece coloro che li attaccando. Basti pensare a come padre Jonathan Austin ha giustificato i vandali dopo che la sua chiesa di Dallas è stata rovinata dai sassi: «Questi vetri non sono nulla. Il vetro si rompe continuamente, purtroppo. Ma la scorsa settimana è stata portata via la vita del signor George Floyd». Austin ha colpevolizzato anche la polizia, esortando tutti a «difendere la vera pace» contro gli «atti orribili, soprattuto avvenuti per mano delle autorità».
Anche Mariann Edgar Budde, vescovessa della chiesa episcopale di Washington, si è indignata per il fatto che Trump si sia fatto fotografare di fronte alla chiesa episcopale di Saint John giustificando invece chi, la sera precedente, aveva incendiato e vandalizzato l'edificio religioso. Eppure, è chiaro che il presidente americano volesse dichiarare guerra all'anarchia, decidendo il giorno successivo alle proteste di ripercorrere simbolicamente i luoghi usurpati dalla devastazione per contrapporre il disordine e la violenza luciferini all'ordine che nasce quando si consegna un paese a Dio.
Lo si comprende anche dal fatto che Trump aveva commentato il vandalismo contro il Lincoln Memorial, contro il World War Two Memorial, contro la chiesa episcopale, insieme all'omicidio di un ufficiale afroamericano in California, così: «Questi non sono atti di protesta pacifica. Questi sono atti di terrore interno. La distruzione della vita innocente e lo spargimento di sangue innocente sono un'offesa per l'umanità e un crimine contro Dio».
Che la stampa abbia spudoratamente mentito sulle rivolte, parlando dell'uso di lacrimogeni contro la folla pacifica, sebbene non ci fosse nulla di pacifico nelle proteste di Washington e sebbene la polizia abbia usato non lacrimogeni ma fumogeni, risulta incomprensibile il comportamento ideologico dei vescovi, che pur di remare contro il presidente sono disposti a stringere le mani a chi odia la Chiesa, la fede e Dio. Eppure non è la prima volta che accade visto che di fronte alla decisione di Trump di definire la chiese luoghi "essenziali" da riaprire dopo il lockdown (bypassando i governatori che hanno approfittato dello stato di emergenza per discriminare la fede prolungando le chiusure dei soli edifici di culto), i vescovi anziché rallegrarsi di un potere che favorisce Dio sono riusciti a rimproverare il presidente: la conferenza episcopale dello Stato di Washington, seguita dall'arcivescovo di Los Angeles, Jose H. Gomez, ha risposto a Trump che avrebbero obbedito al loro governatore piuttosto che a lui.
È questa dunque la vera fatica del presidente che, dopo aver firmato un ordine esecutivo con cui ha stanziato 50 milioni all'anno per la tutela della libertà religiosa (qualche ora dopo la visita al santuario), si è ritrovato ancora una volta contro alcuni membri della chiesa che vuole difendere dal dilagare di una cultura progressista e ferocemente avversa a Dio e alla Verità e ce per questo lo odia e ne ha il terrore. Una cultura ormai così penetrata dentro le mura cristiane da costringere chi le ha dichiarato guerra a combattere con coraggio dentro e fuori la città.
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