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"Meglio sudditi che morti". Così il rapporto del Censis descrive la situazione del nostro Paese alle prese con il Covid. Un'Italia, scrive il Censis, "spaventata, dolente, indecisa tra risentimento e speranza".
In questo "anno della paura nera" più del 73% degli italiani indica proprio "nella paura dell'ignoto e nell'ansia conseguente il sentimento prevalente in famiglia".
Da quando è scoppiata la pandemia, "il 77% ha visto modificarsi in modo permanente almeno una dimensione fondamentale della propria vita: lo stato di salute o il lavoro, le relazioni o il tempo libero".
Gli italiani, al solito, hanno percepito lo Stato come "impreparato" di fronte a una situazione tanto complicata, e tuttavia nel momento del pericolo si sono aggrappati proprio allo Stato. [...]
Impauriti, privi di iniziativa, bloccati sul presente, soggiogati a uno Stato odiato ma visto pur sempre come unica ancora di salvezza, gli italiani si scoprono più brutti e cattivi, pieni di sospetto e risentimento. Davanti a questi dati, chi sosteneva che dalla prova saremmo usciti migliori ha numerosi motivi per ricredersi.
La frase "meglio sudditi che morti" fotografa in modo impietoso questa Italia che è anche sbandata, priva di punti di riferimento credibili, in grado di indicare la strada della rinascita e del riscatto. Al di là degli aspetti strettamente medici e scientifici, si può dire che il virus ha già vinto.
Il rapporto Censis non può evitare di utilizzare a sua volta una metafora inflazionata: il virus come una guerra. Solo che in questa nostra guerra gli italiani si sono scoperti "privi di un Churchill" capace di "fare da guida nell'ora più buia".
UNA RUOTA QUADRATA CHE GIRA A FATICA
La paura travolge anche la solidarietà e l'immagine stereotipata (ma smentita già tante altre volte lungo la storia) dell'italiano buono e generoso. In realtà, di fronte al pericolo il vicino diventa un nemico.
Ma nulla nasce dal nulla. "L'epidemia - spiega il direttore del Censis Massimiliano Valerii - ha rappresentato uno straordinario acceleratore di processi già in atto, l'Italia si è rivelata una ruota quadrata che gira a fatica, con sforzi sovrumani a ogni giro compiuto". Ecco così che "sono emerse tutte le debolezze del nostro sistema, la conflittualità della politica, la rissosità tra istituzioni, il crollo degli investimenti già in atto, i problemi della scuola".
Ormai solo un 20% di irriducibili ottimisti, o ciechi, crede che questa esperienza ci cambierà in meglio. Nel trionfo del pessimismo, spicca il dato sulle partite Iva e i precari: per l'85% degli italiani sono loro i deboli, quelli che non si sa se, quando e come potranno riprendersi.
In questa Italia stanca e impaurita la vera differenza la fa il lavoro. "Per l'85,8% degli italiani la crisi sanitaria ha confermato che la vera divisione sociale esistente tra i lavoratori è quella tra chi ha la sicurezza del posto di lavoro e del reddito e chi no. È una verità ben nota, diventata d'improvviso lapalissiana e largamente condivisa. Esistono due Italie molto diverse: i garantiti e i non garantiti".
Tra i primi, i "garantiti assoluti" sono gli statali, "l'incarnazione della rivincita del posto pubblico, a volte denigrato per il basso valore medio degli stipendi", ma ora rivalutato perché mette al riparo dalla possibile débâcle economica. "Ne sono membri 3,2 milioni di dipendenti pubblici", a cui si possono aggiungere i pensionati, la cui preoccupazione principale è sempre di più garantire un sostegno a figli e nipoti in difficoltà, una sorta di "welfare informale" ma efficace, reso possibile dalla certezza dei redditi pensionistici.
PERICOLO DISOCCUPAZIONE
Quando si esce dalla sfera dei garantiti "si entra nelle sabbie mobili". Ed ecco l'insicurezza dominante, con "la discesa agli inferi della disoccupazione" vista dai lavoratori privati come possibile e probabile.
"C'è poi l'universo degli scomparsi: quello dei lavoretti, del lavoro casuale, del lavoro in nero, un universo indefinito stimabile in circa cinque milioni di persone che ruotavano intorno ai servizi e che hanno finito per inabissarsi senza rumore".
"E poi ci sono i vulnerati inattesi: gli imprenditori dei settori schiantati, come i commercianti, gli artigiani, i professionisti rimasti senza incassi e fatturati. Si tratta del magmatico mondo del lavoro autonomo, nel quale solo il 23% dei soggetti ha continuato a percepire gli stessi redditi familiari di prima del Covid-19".
La società italiana è dunque "sfibrata dallo spettro del declassamento sociale", con più della metà dei giovani che vive in una condizione socioeconomica peggiore di quella dei genitori alla loro stessa età.
Ma la consapevolezza dei problemi non incentiva la voglia di fare e di intrapresa. Pochi se la sentono di andare in mare aperto, di rischiare, di giocarsela sul mercato. "Quasi il 40% degli italiani (il 41,7% dei più giovani) oggi afferma che, dopo il Covid-19, avviare un'impresa, aprire un negozio o uno studio professionale è un azzardo, perché i rischi sono troppo alti, e solo il 13% lo considera ancora un'opportunità".
Nella parte dedicata alle considerazioni generali, il rapporto afferma a un certo punto che "in questa drammatica condizione il nostro Paese non può restare intrappolato in parole tanto rassicuranti quanto povere di significato". La tirata d'orecchi è evidentemente per i politici, ma viene naturale chiedersi se dall'altra parte ci sia qualcuno in grado di apprendere la lezione e trarne le conseguenze.
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