« Torna agli articoli di I


SANDRA E RAIMONDO: ELOGIO DEL MATRIMONIO
I 50 anni ininterrotti in casa Vianello esaltati dai mass media “divorzisti”
di Mario Palmaro
 

“Che noia, che barba, che barba, che noia!” Era la frase tormentone che concludeva immancabilmente ogni puntata della situation-comedy “Casa Vianello”. A pronunciarla Sandra Mondaini, nascosta sotto le coperte del lettone matrimoniale; accanto a lei un Raimondo Vianello nei panni di un marito impassibile, impegnato nella lettura serale altrettanto immancabile della Gazzetta dello Sport. Erano marito e moglie nella finzione, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. Ma lo erano anche nella realtà: si erano sposati da mezzo secolo, dopo essersi conosciuti nel mondo vacuo e tentatore dello spettacolo. E dopo cinquant’anni erano ancora lì, insieme, a litigare davanti alle telecamere, un po’ per finta, un po’ sul serio. Ma erano insieme, marito e moglie. Solo la morte lì ha separati, perché sono rimasti insieme “nella buona e nella cattiva sorte”, come vuole la formula millenaria che la Chiesa fa pronunciare agli sposi davanti al sacerdote.
LA “MORTE SPETTACOLO”
Quando il 14 aprile Raimondo Vianello è morto , la notizia ha fatto subito il giro delle agenzie e delle radio, addirittura andando in apertura di molti telegiornali. Attore, comico, presentatore, autore, appassionato di calcio (si dice fosse interista): quotidiani e riviste popolari hanno dedicato a quest’uomo copertine e numeri monografici. Vianello era – insieme all’inseparabile Sandra –un personaggio popolarissimo. Quanto il pubblico lo amasse lo si è capito proprio nel momento della sua scomparsa: le lunghe code di gente comune per visitare le sue spoglie, l’affetto che traspariva in vario modo dai commenti che circolavano negli uffici e nei negozi in quei giorni, i funerali religiosi. Certo, come sempre accade nel mondo della Tv e del cinema, c’è sempre una porzione detestabile di spettacolarizzazione anche nel fenomeno severo e terribile del morire. L’assedio delle telecamere e dei giornalisti, che vogliono profanare anche questi momenti solenni della vita di un uomo; un certo voierismo del pubblico, che vuole andare a “vedere il morto” e magari – orribile abitudine – a fotografarlo con il telefonino. La morte viene trasformata in un fenomeno da teleriprendere, e così perfino le esequie di persone normali si sono imbarbarite: se il funerale è un vero e proprio spettacolo da celebrare a beneficio di un pubblico, allora è del tutto “naturale” comportarsi come a un talk show o a un varietà del sabato sera. E così, ecco dilagare l’orrido costume degli applausi al morto: esce la bara dalla Chiesa, e la gente applaude; o addirittura, l’applauso esplode fra le navate del tempio, violando le regole più elementari del contegno dovuto alla casa del Signore.
IL PARADOSSO DELLE “ VIRTÙ POSTUME”
Sia concesso, dunque: anche in questa occasione i meccanismi del mondo dello spettacolo hanno giocato la loro parte. E tuttavia, c’è qualche cosa d’altro, e di molto più profondo ed edificante. Nelle ore che sono seguite alla morte di Raimondo Vianello, i mass media sono stati affollati dai “coccodrilli”, nel gergo giornalistico gli articoli che rievocano la figura di un personaggio all’indomani della sua dipartita. Ne veniva fuori un ritratto unanime di Vianello, che più o meno ripeteva questo refrain: Raimondo era un uomo senza volgarità, un comico che non diceva mai una parolaccia, un presentatore elegante e ironico, una persona per bene, un uomo riservato, una persona buona, un marito che non aveva mai rotto il vincolo matrimoniale con la sua Sandra, e che voleva bene a sua moglie, l’unica moglie, anche se amava scherzare sull’argomento e “costruire” i suoi testi comici proprio intorno alla “pesantezza” del legame coniugale. Il pubblico si riconosce in questi giudizi, e sa che non sono dettati – come spesso avviene – dalla necessità del parce sepulto, dal dovere dell’etichetta che impone di dire solo bene del morto.
Raimondo Vianello piaceva, e piaceva anche perché incarnava una televisione virtuosa. In “Casa Vianello” – che è stata la sit-com più famosa e longeva prodotta dalla televisione italiana, trasmessa sulle reti Mediaset sin dal 1988 – il lettone era in fondo il simbolo di un’antica verità che piace alla gente normale: e cioè che l’amore deve essere per sempre. Ma è proprio in questo fatto che, apologeticamente, si può notare una clamorosa contraddizione del mondo in cui viviamo: Vianello viene ricordato e celebrato per che cosa? Per le sue virtù. Per il bene che ha fatto e per il male che ha evitato di fare. E questo bene e questo male sono individuati in maniera molto concreta e corretta. Sul piano astratto e teorico, però, quelle stesse virtù – esaltate nei coccodrilli dedicato al vip che non c’è più – vengono sistematicamente negate, sbertucciate, derise. Il matrimonio? Una burletta, un oggetto da museo, superato dal libero amore e dalla convivenza. L’indissolubilità matrimoniale? Una prigione inventata dalla Chiesa. La “bocca pulita” e l’abitudine a non dire parolacce? Un modello borghese e ottocentesco, buono per un don Bosco o un Domenichino Savio, ma non certo per gente tosta e moderna.
IL MOMENTO DELLA VERITÀ
Poi, però, c’è come un momento della verità, uno snodo della vita nel quale le parole vuote e le menzogne della società nichilista e relativista sono polverizzate, spazzate via: è il momento della morte. E anche se viviamo in una società secolarizzata, che nega Dio e quindi il suo giudizio particolare nei confronti di ogni anima; anche se molti hanno tentato di convincerci che il Paradiso non c’è e men che meno l’Inferno e il Purgatorio; ebbene, nonostante queste premesse disperanti, il mondo è costretto a esercitarsi in un “giudizio” mondano del morto. E quasi per magia, il mondo si scopre “costretto” a utilizzare quegli stessi criteri che duemila anni di cristianesimo hanno instillato nel cuore e nella mente di innumerevoli generazioni: pulizia morale, fedeltà, serietà, onestà, perfino religiosità. Così, Raimondo Vianello viene ammirato come un simbolo della solidità matrimoniale, anche se a celebrarlo sono magari i teorici della dissoluzione legale e morale di tale solidità. E le telecamere indugiano sulla “sua” Sandra che lo piange straziata abbracciandone la bara. Lei che in quel momento appare così diversa dalla donne annoiata e insofferente di tanti sketch televisivi, e che si rivela per quello che era nella realtà: una moglie.
Così, Sandra e Raimondo diventano i simboli della virtù incarnata, del fatto che il bene non è un ideale bello e impossibile, ma che può essere vissuto davvero, e che ad esempio l’indissolubilità é più forte delle tentazioni del mondo e delle debolezze personali. Vianello aveva una dirittura professionale e umana che gli ha permesso di essere anche controcorrente in un mondo di conformisti: “non rinnego né Salò né Sanremo”, aveva detto con una battuta delle sue, alludendo alla necessità di rispettare la memoria dei ragazzi caduti per la Repubblica Sociale. Vianello sapevo di che cosa parlava, visto che aveva aderito a Salò come ufficiale dei bersaglieri, ed era stato detenuto dagli Alleati nel campo di concentramento di Coltano assieme ad altri personaggi famosi, come il poeta Ezra Pound, gli attori Dario Fo, Walter Chiari, Enrico Maria Salerno, il giornalista Enrico Ameri, il regista Luciano Salce. Raimondo Vianello non era praticante, ma è morto da cattolico: confessandosi e ricevendo l’estrema unzione. Al sacerdote che lo ha assistito ha detto: “Per incontrare Dio mi devo preparare bene”.

 
Fonte: Il Timone, giugno 2010