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« Torna agli articoli di I
Dalle finestre del tinello don Camillo aveva un meraviglioso panorama sulle cime, ma quella mattina all'orizzonte mancava qualcosa. Non aveva ancora finito di raccapezzarsi sulla faccenda paesaggistica che arrivò come un fulmine lo Sparalesto, in compagnia del presidente della Pro Loco.
In nome dell'ambiente, il gruppo "Spirito libero in libera natura" aveva ottenuto dal comune il permesso di abbattere la Croce di vetta che era lì da duecento anni.
Don Camillo fece irruzione nell'ufficio della nota assessora alla cultura e, mani sui fianchi, la guardò come si guarda un abusivo che scaccia di casa il padrone. Ma l'assessora era un osso duro.
«Si calmi e non ne faccia una questione integralista», disse, «noi pensiamo che i frequentatori della nostra vetta più alta debbano avere la possibilità di attribuire liberamente alle loro esperienze in montagna i valori che sentono più affini. Senza alcun inquinamento prevaricatore. Lo diciamo anche per una questione di libera lode alla natura, senza preconfezionamenti».
Il povero parroco, di fronte a un tale sfoggio di cultura, rimase per un momento al tappeto. E pensò che l'assessora colpiva molto più duro del vecchio Peppone.
Uscito dal palazzo comunale don Camillo ebbe un'altra notizia da knock-out, i talebani dell'ambiente libero non si erano limitati a togliere la vecchia Croce di vetta, ma al suo posto avevano posizionato un monumento al libero pensatore che, pensoso, avrebbe atteso lo scalatore per dargli un vago senso di conquista della cima. Il vaso era colmo e al nostro parroco di crinale non rimase che andare dal Crocifisso dell'altar maggiore.
«Signore, qui la vogliono sfrattare da casa sua».
«Non preoccuparti don Camillo, ci sono abituato, sono salito sulla Croce per questo. Tu continua a salire la tua strada e non perdere di vista la meta».
E fu sera, e fu mattina. Il giorno dopo verso mezzogiorno in piazza non si parlava d'altro, tutti a guardare la vetta. Nottetempo qualcuno, di fianco al libero pensatore, aveva piantato tre metri di Croce con su scritto In hoc signo vinces. Qualcuno gridava al miracolo. Quelli dello "spirito libero" erano già pronti a salire in vetta con l'assessora che voleva vedere con i suoi occhi. Don Camillo si rese subito disponibile per accompagnarli.
Durante la salita raggiunsero il vecchio Paolino, che ogni anno in quaresima saliva alla Croce di vetta per lasciare un fiore. Era solo da anni, aveva perso in un colpo la moglie e il giovane figliolo, assassinati all'epoca della linea gotica.
«Buongiorno reverendo, venite anche voi alla Croce?», domandò Paolino.
«Andiamo a vedere chi ha rimesso la Croce in vetta, visto che questi signori l'avevano tolta per far posto ai pensatori».
«Ma la Croce è sempre rimasta al suo posto», rispose Paolino, «da casa mia non ho mai smesso di vederla».
Tutti conoscevano il vecchio Paolino e a qualcuno la storia del miracolo cominciava a far sudare freddo. A togliere tutti dall'impaccio pensò don Camillo: «Cari liberi pensatori, spesso solo un cammino molto accidentato può condurre a Dio, un cammino che solo nella Croce trova significato. Allora si sale per la strada giusta. Chi nel proprio cammino non vede più la Croce, allora è segno che è fuori strada. Ma si può sempre tornare sulla retta via e vedere così riapparire all'orizzonte il Segno della vera libertà». La comitiva girò i tacchi e scese a valle. Dal tinello di don Camillo il panorama era tornato a posto.
Nota di BastaBugie: questo racconto è tratto dal libro E continuavano a chiamarlo don Camillo (Ed. Cantagalli), prima raccolta di brevi storie di fan fiction che riportano in vita i celebri personaggi guareschiani. In maggio è uscita la seconda raccolta con altri 35 racconti, Don Camillo e la bocciata finale (Ed. Il Timone).
Ermes Dovico nell'articolo seguente dal titolo "Il Cai, le croci e le montagne (che ci parlano di Dio)" commenta la vicenda del portale il Club Alpino Italiano che prima disapprova l'installazione di nuove croci sulle vette, poi fa un parziale dietrofront, ma la toppa è peggiore del buco. All'origine, il mancato riconoscimento della meta eterna a cui la Croce e le stesse montagne ci richiamano.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 27 giugno 2023:
«Prima che nascessero i monti / e la terra e il mondo fossero generati / da sempre e per sempre tu sei, Dio» (Sal 89,2). Le lodi mattutine di ieri, 26 giugno, ci ricordano che l'intera creazione - dai monti a tutta la realtà di cui noi stessi facciamo parte - è opera dell'Eterno, cioè di Dio. Esse ci parlano dello stesso Dio che si è incarnato nella pienezza dei tempi, condividendo tutto della condizione umana (tranne il peccato) fino a lasciarsi crocifiggere per la nostra salvezza. È quindi curioso, sebbene non originale, che oggi, A. D. 2023, si possa definire «anacronistico» quel simbolo, la croce, che ricorda l'evento centrale nella storia dell'uomo, richiamando evidentemente Colui - Gesù Cristo - che ha voluto amare i suoi figli fino al dono della sua stessa vita.
Il caso è già ben noto alle cronache: tutto nasce dalla posizione espressa da esponenti di spicco del Cai, il Club Alpino Italiano, a proposito delle croci innalzate sulle cime delle montagne. Ricostruiamo i fatti.
Giovedì 22 giugno, all'Università Cattolica di Milano, si è tenuto un convegno con relatori di diversa estrazione che si sono confrontati sui temi presenti nel libro Croci di vetta in Appennino, di Ines Millesimi. Il convegno era stato annunciato il 13 giugno attraverso un articolo sulla testata online del Cai, Lo Scarpone, in cui Pietro Lacasella, curatore del portale, a proposito delle croci di vetta, scriveva che è sbagliato rimuoverle ma è «anacronistico» innalzarne altre, perché «la croce non rappresenta più una prospettiva comune, bensì una visione parziale», mentre le vette dovrebbero essere considerate «come un territorio neutro».
La stessa posizione - né rimuovere le croci esistenti né innalzarne di nuove - veniva espressa al convegno alla Cattolica dal direttore editoriale e responsabile delle attività culturali del Cai, l'ateo dichiarato Marco Albino Ferrari. In un solco simile anche la linea dell'autrice del libro presentato all'evento, Ines Millesimi, secondo cui «la croce non può essere un segno divisivo». Lo Scarpone ritornava quindi sul tema con un articolo - Croci di vetta: qual è la posizione del CAI? - sempre a firma di Lacasella, per ribadire, a sintesi del convegno, il concetto che il Cai rispetta le croci esistenti e si occupa anche della loro manutenzione, ma il presente impone di «disapprovare la collocazione di nuove croci e simboli», per via del «dialogo interculturale» e delle «nuove esigenze paesaggistico-ambientali». Anche questo è un paradossale segno dei tempi: accantonare Dio in nome dell'ambiente e delle religioni (e pazienza che quella rivelata sia una sola).
La posizione del Cai ha suscitato malcontento tra diversi soci. E ha portato vari leader di centrodestra a intervenire, forse anche per un malinteso sulla rimozione: malinteso che comunque - stando a quanto riportava il sito del TgCom il 24 giugno - avrebbe coinvolto anche alcune guide di Alagna (provincia di Vercelli) che avevano già cominciato a rimuovere le croci «per ammassarle in un memoriale».
A seguito dell'intervento della maggioranza al Governo - incluso il Ministero del Turismo, che vigila per competenza sul Club Alpino Italiano - il presidente dello stesso Cai, Antonio Montani, ha diffuso una nota per dire che non c'è «una posizione ufficiale» sulle croci di vetta e quanto pubblicato in precedenza «è frutto di dichiarazioni personali espresse dal direttore editoriale Marco Albino Ferrari […]. Personalmente, come credo tutti quelli che hanno salito il Cervino, non riesco ad immaginare la cima di questa nostra montagna senza la sua famosa croce». La nota, a ben vedere, è solo un parziale dietrofront, perché toglie l'aura di ufficialità alla posizione espressa da Ferrari-Lacasella, ma nulla dice su eventuali nuove installazioni di croci.
E questo non è un punto secondario. Le croci di vetta di cui si parla - come riporta il portale del Cai - risalgono per la maggior parte al periodo compreso tra la seconda metà del XIX e la prima metà del XX secolo. Dunque, innanzitutto, oggi non c'è questa presunta "emergenza" di evitare chissà quale proliferazione di nuove croci. D'altra parte, presentare la croce come anacronistica e divisiva pone come minimo un problema di prudenza, perché il discorso investe evidentemente non solo le croci sulle vette - il che è già problematico - ma tutte le croci e i simboli cristiani negli spazi e luoghi pubblici. Le assurdità da politicamente corretto della nostra epoca - quelle sì divisive, nel senso negativo del termine - stanno lì a ricordarcelo. E la storia ci dice che quando serpeggia un clima culturale così, basta nulla perché dalla persecuzione ai simboli si passi a quella alle persone che in quei simboli si riconoscono.
Riguardo, poi, all'invocata neutralità o "laicità", c'è bisogno di ricordare - come faceva Stefano Fontana sulla Bussola - che uno Stato veramente laico non è né antireligioso né indifferentista, ma dovrebbe interessarsi, per il bene comune, alla verità delle religioni. Del resto, quando il Signore dice di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, è chiaro che i due termini non sono da intendere come uguali, perché l'autorità di uno (Cesare) discende ed è subordinata a quella dell'Altro (Dio), il quale ci chiama ad aderire alla verità, che non è un'ideologia bensì una persona: Suo Figlio, Gesù crocifisso e risorto.
La croce non ammette neutralità. In questo senso, drammatico ma orientato al bene, divide, dovendo noi scegliere se stare con Chi vi è stato inchiodato o contro di Lui, se con la Sua stirpe o con quella del divisore per eccellenza (il diavolo). Nel primo caso si tratta di seguire questa parola di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Quali siano le conseguenze del mettere in pratica un simile insegnamento, o rigettarlo, è facilmente comprensibile. Peccato che personaggi di punta del Club Alpino Italiano, oggi, non lo riconoscano.
Eppure, uno che fu socio del Cai, il beato Piergiorgio Frassati, aveva ben chiaro che i monti e le loro cime, oltre a essere un motivo di gioia per i sensi, ci chiamano a riconoscerci figli ed elevare la nostra anima a Dio: «Ogni giorno m'innamoro sempre più delle montagne e vorrei, se i miei studi me lo permettessero, passare intere giornate sui monti a contemplare in quell'aria pura la Grandezza del Creatore», scriveva il giovane Frassati, beatificato da un altro grande amante delle montagne, san Giovanni Paolo II. Anche lui carico di stupore di fronte alla bellezza delle vette e alla meta eterna di cui esse, in un'ottica autentica, sono metafora.
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