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Era passata inosservata l'ennesima grave esternazione di papa Francesco in occasione del recente viaggio in Indonesia. Ma ci ha pensato il fido Antonio Spadaro a riesumarla e farla conoscere al mondo sul sito de La Civilità Cattolica, riportando diversi colloqui di Francesco in occasione del Viaggio Apostolico, incluso quello con 42 gesuiti di Timor Est, il 10 settembre.
Il Papa ha ripetuto ancora una volta di non aver mai rifiutato l'assoluzione, aggiungendo però un dettaglio che lo pone direttamente sotto l'anatema del Concilio di Trento. Già nel novembre 2022, parlando ai Rettori e ai Formatori dei Seminari dell'America latina, Francesco si era spinto molto alla deriva (vedi qui), etichettando come "delinquenti" quei sacerdoti che rifiutano l'assoluzione. Poi, il 14 gennaio scorso, ospite della trasmissione Che tempo che fa, aveva ostentato la sua misericordia, affermando che «in 54 anni di sacerdozio ho soltanto negato una sola volta l’assoluzione per l’ipocrisia della persona». Ora, con i confratelli di Timor Est, il Papa confessa «che in 53 anni di sacerdozio non ho mai rifiutato un’assoluzione». Non è solo il computo degli anni di sacerdozio a non tornare (dal prossimo 13 dicembre saranno infatti 55), ma anche il contenuto dei suoi racconti: questa benedetta assoluzione l'ha negata almeno una volta all'ipocrita o non l'ha mai negata? Quale sarà la prossima versione? La sensazione che Bergoglio se le inventi di sana pianta è piuttosto difficile da rintuzzare.
Ma questa volta il Papa ha pensato bene di aggiungere al suo già problematico palmarès una nuova "nota di demerito". Ha infatti affermato di aver sempre perdonato, anche quando la confessione «era incompleta» (corsivo nostro). E ha proseguito: «Ho sentito dire a un cardinale che, quando è in confessionale e le persone cominciano a dirgli i peccati più gravi balbettando per la vergogna, dice sempre: "Vada avanti, vada avanti, ho capito già", anche se non ha capito niente. Dio capisce tutto. Per favore, non trasformiamo il confessionale in un consultorio psichiatrico, non trasformiamolo in un tribunale. Se c’è una domanda da fare, e spero che siano poche, la si fa e poi si dà l’assoluzione».
LA CONFESSIONE INCOMPLETA
Come si può notare, il Papa ha esplicitamente fatto riferimento ad una confessione incompleta. L'aggettivo è indicativo di una precisa espressione teologica, che si riferisce ad una confessione nella quale il penitente volutamente tace uno o più peccati mortali da lui commessi e non precedentemente confessati. In simili situazioni, la confessione viene a mancare del requisito essenziale dell'integrità, ossia la confessione di tutti i peccati gravi (la confessione dei peccati veniali è consigliata, ma non obbligatoria) di cui si è consapevoli, dopo un attento esame di coscienza, alla luce dei santi Comandamenti.
Ora, l'integrità dell'accusa è condizione necessaria per ottenere la remissione dei peccati, ossia è condizione per la validità del sacramento, esattamente come il pentimento e il proposito di emendarsi. Vi sono situazioni in cui ovviamente il sacerdote non può sapere che il penitente stia tacendo dei peccati gravi, perché non ne ha elementi oggettivi. Altre in cui ne ha il sospetto e allora ha il dovere di porre delle domande per aiutare il penitente a confessare tutte le colpe gravi commesse; è il classico caso della persona che non si confessa da 30 anni e dice solo di aver mangiato una caramella in Quaresima... Vi sono poi altre situazioni in cui il sacerdote ha la certezza che la confessione non sia integra, come nel caso di un peccatore pubblico che taccia appunto la colpa nota. Le parole del Papa portano decisamente a questa terza ipotesi, dal momento che Francesco ha fatto riferimento ad una confessione effettivamente incompleta e non al sospetto insolubile che potesse essere tale.
In sostanza, il Papa si è posto come esempio per esortare i confratelli ad impartire assoluzioni invalide, finendo piuttosto chiaramente sotto l'anatema scagliato dal Concilio di Trento nel settimo dei Canoni sul sacramento della penitenza: «Se qualcuno dirà che nel sacramento della penitenza per ottenere la remissione dei peccati non è necessario di diritto divino confessare tutti e singoli i peccati mortali che si ricordano dopo debito e diligente esame, anche quelli segreti e commessi contro i due ultimi precetti del decalogo [...], sia anatema (Denz. 1707). Importante la sottolineatura «di diritto divino» (iure divino), che indica espressamente che l'integrità della confessione è condizione costitutiva del sacramento e non derogabile da parte di qualsivoglia autorità ecclesiastica, fosse appunto anche il Papa, che non è affatto superiore al diritto divino.
IL PENTIMENTO DI TUTTE LE COLPE
Nella sua parte espositiva, il medesimo Concilio spiegava la ragione profonda dell'importanza e necessità di non tacere alcuno dei peccati gravi di cui si è consapevoli: «Mentre i cristiani si sforzano di confessare tutti quelli che vengono loro in mente, senza dubbio mettono tutti i loro peccati davanti alla divina misericordia perché li perdoni. Quelli, invece, che fanno diversamente e tacciono consapevolmente qualche peccato, è come se non sottoponessero nulla alla divina bontà perché sia perdonato per mezzo del sacerdote» (Denz. 1680).
Il sacramento della penitenza esiste per rimettere i peccati ed essere così riconciliati con Dio. Ora, conservare il legame con un peccato che, per sua natura, ci separa da Dio (ossia un peccato mortale), impedire volontariamente che venga alla luce per essere rimesso e la nostra anima sia così risanata, significa sottrarsi alla misericordia di Dio. Sarebbe semplicemente ridicolo pensare che il Signore rimetta "parzialmente" le colpe, ritenendo che intanto si possano assolvere le colpe confessate, ma non quelle occultate; ed ancor più assurdo sarebbe pensare che Dio rimetta quelle colpe che noi vogliamo sottrarre al suo perdono, tacendole. I peccati mortali sono sì di specie molteplici, ma tutti accomunati da una caratteristica: commettendoli, l'anima si distoglie da Dio e si priva della grazia santificante. Per questa ragione, il penitente deve ripudiarli tutti e singoli per non conservare quell'affetto al peccato, che lo manterrebbe nello stato di privazione della grazia. Perché - e questo è ciò che questo pontificato ha dimenticato e fatto dimenticare - tra il peccato mortale e la grazia santificante c'è esclusione reciproca: o c'è l'uno o c'è l'altra. Appunto perché non si tratta di "cose" che possono stare l'una accanto all'altra, ma di disposizioni dell'anima che o si volge a Dio con un vero pentimento di tutte le sue colpe oppure si distoglie da lui, conservando affetto per la colpa.
ASSOLVERE ANCHE SE NON SI PUÒ SIGNIFICA INGANNARE IL FEDELE
Papa Francesco è nuovamente cattivo maestro: assolvere un penitente, sapendo che la sua confessione non è integra, significa ingannare gravemente il fedele, simulando un'assoluzione che non può che essere invalida, e profanare così il sacramento. Lasciare che il fedele occulti le proprie colpe, significa lasciarlo nella melma della colpa ed impedire la sua guarigione. Si tratta dunque a tutti gli effetti di una falsa e pericolosa misericordia.
Non meno problematica è l'esempio riportato dal Papa, nel quale si evince che non sarebbe necessario che il penitente specifichi di quali peccati si sta accusando, né che il sacerdote lo comprenda. Il Concilio di Trento, al contrario, insegna che parte essenziale dell'integrità della confessione è lo specificare il tipo di peccato ed anche «le circostanze che mutano la specie del peccato, perché senza quelli né i penitenti esporrebbero integralmente i peccati, né i giudici li conoscerebbero a sufficienza per percepirne esattamente la gravità e imporre ai penitenti una pena proporzionata» (Denz. 1681)». Perché, quanto alla gravità, altro è rubare una matita al compagno di classe e altro rubare ad una famiglia il necessario per vivere; quanto alla specie, altro è rubare al supermercato e altro rubare la pisside con le ostie consacrate dal tabernacolo. Non basta, per esempio, accusarsi di aver peccato contro la purezza: senza entrare ovviamente in dettagli inutili e morbosi, si deve però confessare se il peccato contro il sesto comandamento è avvenuto da soli, o con altre persone; e se queste altre persone sono sposate o libere, se sono persone del proprio sesso o no, perché, come è facile comprendere, cambia la specie di peccato.
È da notare inoltre come il Concilio tridentino non tema di chiamare il confessore «giudice», e, come se non bastasse, di definire «empio affermare che una tale confessione», nella quale si confessano tutti i peccati gravi che si ricordano e le circostanze specificanti, sia «impossibile o chiamarla tortura delle coscienze». Esattamente quanto fa di continuo papa Francesco, mettendosi così nell'infelice compagnia di Lutero, Melantone e Calvino, che sono i bersagli espliciti di questo testo del tridentino.
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