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Esiste un gruppo editoriale, in Italia, che ha plasmato e continua a plasmare buona parte della cultura del paese. Mi riferisco all’editore L’espresso, che possiede il quotidiano Repubblica (il secondo più venduto in Italia dopo il Corriere della Sera), il settimanale L’espresso e altri 15 quotidiani locali (oltre a due mensili, due trimestrali, tre emittenti radiofoniche nazionali, l’emittente nazionale All Music...). Un vero impero mediatico, insomma, rispetto a cui la stampa cattolica, cosi povera e divisa, fa una assai magra figura.
Tra i giornalisti di spicco che vi collaborano troviamo Umberto Eco, l’autore del celebre romanzo Il Nome della rosa; Natalia Aspesi e Miriam Mafai, vestali del pensiero nichilista al femminile; Aldo Schiavone, ex direttore dell’Istituto Gramsci, che oggi immagina un futuro in cui ha tecnica sconfiggerà la morte e disgregherà finalmente la famiglia tradizionale; Umberto Veronesi, il famoso oncologo che si dedica soprattutto alla difesa dell’evoluzionismo materialista e della clonazione terapeutica e riproduttiva; Corrado Augias, autore di due pubblicizzatissimi libri in cui, senza conoscenza alcuna di esegesi biblica e di filologia, cerca di spiegare al credulone di turno che Cristo non è veramente risorto, e che il Cristianesimo è in realtà un «costantinismo», cioè una «religione civile» forgiata dall’imperatore Costantino per fini politici e di potere; Umberto Galimberti, di cui recentemente si è scoperta l’attitudine a copiare libri altrui, che ha caro il concetto per cui la tecnica sconfiggerà ed eliminerà la religione; il presentatore televisivo Gad Lerner, anch’egli omogeneo alla cultura anticattolica dominante nelle elite, e tanti altri opinionisti che hanno fatto della lotta alle radici cristiane dell’Italia il loro principale obiettivo.
All’origine di questa potentissima corazzata ideologica che ha sostenuto le campagne a favore del divorzio e dell’aborto, e che ora promuove il testamento biologico, oltre che ogni altro cambiamento di costume che vada in una ben precisa direzione, c’è una operazione culturale ben precisa, portata avanti dalla grande finanza laicista del nostro paese, che data a partire dal 1955, quando appunto venne creata la società editrice L’espresso, con Adriano Olivetti come principale azionista. Il 1955 è, non a caso, l’anno di nascita anche del Partito radicale, da una costola del Partito liberale italiano, erede a sua volta di quella borghesia elitaria che aveva (mal) fatto l’unità d’Italia. La storia dell’Espresso e poi di Repubblica, nata nel 1976, è strettamente legata alla figura di Eugenio Scalfari, primo direttore e vero padre ideale del suddetto quotidiano.
Chi e Eugenio Scalfari? Nel suo Scalfari, una vita per il potere, il noto giornalista Giancarlo Perna ricorda che il giovane Eugenio fu un membro del Guf fascista, che esordì come giornalista su Roma fascista, dimostrando una forte passione per il duce, lo stato etico, l’impero, la guerra. Perna ci dice anche che «Scalfari-padre era massone. Una tradizione di famiglia. Il capostipite fu don Antonio, che, a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, fondô la Loggia della Calabria uniforme […] Eugenio ha i ritratti degli avi che indossarono il grembiulino appesi nella sua villa di campagna, a Velletri. Su ognuno c’è l’emblema rnassonico scalfariano: uno scudetto a due campi: uno con la scure e l’altro con il ponte […]. Con la caduta del fascismo […] Pietro (padre di Eugenio) fu tra i fondatori della loggia locale».
Ma per comprendere meglio la storia di questo celebre giornalista, occorre leggere il suo ultimo libro, L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), in cui l’autore rievoca «il laicismo massonico» del padre, la propria «infanzia solitaria», nutrita di «tristezza» e «malinconia», e la propria cupa e disperata visione dell’esistenza. Per Scalfari ogni uomo è solamente una delle «forme che la natura casualmente produce», un insieme di «cellule neuronali» casualmente connesse e intrecciate tra loro, gettate, quasi per uno scherzo maligno, «nel caos di una vita ancora tutta da inventare».
La domanda di senso, scrive Scalfari, «è il tema dominante della nostra specie»: «il filo d’erba vive ma non si pensa e così la farfalla, gli uccelli, il serpente... la vita dell’universo non ha bisogno di senso. Noi ne abbiamo bisogno, la nostra specie ne ha bisogno».
Ma la verità è che questo senso non esiste, che il lungo interrogarsi dell’uomo non porta a nulla ed egli rimane «un animale tra i tanti, una forma tra le innumerevoli forme», segnata però da un io, una coscienza, una personalità distinta, unica e irripetibile, che non è assolutamente un segno della nostra natura spirituale, bensì una condanna, un errore, «una superstizione», una «maschera», una «gabbia», un «capriccioso dittatore»... Meglio sarebbe annullarsi in una natura panteisticamente intesa, «distruggere l’Io», come propongono le religioni orientali. Distrutto l’io, evidentemente, anche l’esigenza di un Dio trascendente, personale, creatore, che sia il senso della vita, scompare, ed insieme a lui perisce anche l’idea di una morale oggettiva, segno della nostra libertà e della nostra grandezza. L’uomo, per Scalfari, come per tutti gli evoluzionisti materialisti, non è libero, non sceglie tra il bene e il male, non aspira alla Giustizia e alla Verità: semplicemente agisce spinto dall’«istinto di sopravvivenza», e null’altro, esattamente come gli altri animali. Perché Socrate è morto per la giustizia? Perché Cristo ha dato la sua vita per gli altri? Perché un uomo può donare tutte le sue ricchezze a poveri che neppure conosce? Non certo per una libera scelta, per la nostra natura spirituale. «Chi mette a rischio la propria vita, scrive, per salvare qualcuno che sta annegando o per difendere un debole […] non obbedisce a concetti ma agisce sotto la spinta emotiva di pulsioni e di istinti» animali, impersonali, oscuri. Ecco perché ciò che ci muove non può essere l’amore, l’altruismo, il desiderio di santità. Ma solo «la volontà di potenza», quella stessa volontà che Scalfari, come giornalista, afferma di sentire fortemente nella propria vita, nel momento in cui scrive di altri, giudica tutti, si pone al di sopra di ogni cosa.
Oggi Scalfari non è più direttore di Repubblica, ma scrive ogni settimana la sua interminabile «predica» domenicale. L’impostazione del giornale rimane infatti quella delle origini. A garantirla un editore come Carlo De Benedetti, che, come racconta Ferruccio Pinotti, in un suo studio molto documentato, benché a tratti un po’ ingenuo, Fratelli d’Italia (Rizzoli), «risulta essere entrato nella massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia, regolarizzato nel grado di Maestro, il 18 marzo 1975».
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