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CONTINUA LA POLEMICA SCATENATA DALLA REVOCA DELLA SCOMUNICA AI LEFEBVRIANI
di Cristiana Vivenzio
 

Intervista a don Salvatore Vitiello: "Unire il mondo cattolico non significa non essere dalla parte degli ebrei".

Non accenna a chiudersi la polemica scatenata dalla revoca della scomunica a quattro vescovi lefebvriani annunciata da Benedetto XVI. Nonostante ieri il superiore dei lefebvriani, Bernard Fellay, abbia invocato il "perdono" al Papa e "a tutti gli uomini di buona volontà", imponendo allo stesso tempo al contestato vescovo negazionista, Richard Wiliamson, un rigoroso silenzio su "questioni politiche e storiche". E' notizia delle ultime ore, infatti, che il rabbinato d'Israele abbia  rotto indefinitamente i rapporti ufficiali con il Vaticano, Vaticano cui chiedeva un gesto di netta presa di distanza dalle dichiarazioni del "vescovo negazionista". Il Papa ha risposto, dichiarando la sua "incondizionata solidarietà ai fratelli ebrei". La situazione è politicamente scottante, ma dal punto di vista della teologia perfettamente lineare. Così almeno la giudica don Salvatore Vitiello, docente di Teologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, al quale abbiamo chiesto di lasciar da parte le polemiche politiche, per addentrarci di più sulle questioni dottrinali.
Cominciamo da lontano. Cosa è e cosa implica la revoca della scomunica?
La scomunica è la più grave pena che possa essere comminata dalla disciplina ecclesiastica e consiste nella dichiarazione che un determinato fedele, per gli atti compiuti o per la dottrina a cui esplicitamente aderisce, non è più “in piena comunione” con la Chiesa cattolica. In base al Canone n. 1382 del Codice di Diritto Canonico, incorre in tale sanzione il Vescovo che consacra altri Vescovi senza il mandato pontificio, e la pena riguarda sia il Vescovo consacrante, sia coloro i quali si sono lasciati consacrare in tale situazione. Questo è esattamente il caso delle consacrazioni episcopali avvenute il 30 giugno 1988 ad opera di S.E. Mons. Marcel Lefebvre.
E perché ha riguardato solo i vescovi e non i sacerdoti e i fedeli che seguono la Fraternità Pio X?
La scomunica è sempre personale, non si comminano “scomuniche di massa”, pertanto riguarda solo i menzionati presuli, e non il resto dei sacerdoti e fedeli laici della fraternità. È necessario ricordare ancora che i quattro vescovi, che non sono più scomunicati, rimangono tuttavia “sospesi a Divinis”, cioè i loro atti sacramentali, pur validi, rimangono illeciti finché non ci sarà la piena riconciliazione con la Chiesa Cattolica.
Ora, allora, iniziamo a entrare nello specifico della revoca.
L’atto di revoca della scomunica è un passo importante nel cammino verso la piena comunione, non solo di fede, che sostanzialmente non è mai venuta meno, ma soprattutto giuridica. Basti pensare che, ormai oltre quaranta anni fa, furono revocate le scomuniche nei confronti dei fratelli ortodossi, ma la comunione, a tutt’oggi, non è ancora piena.
Con la revoca si è parlato di una mano tesa del Papa, ma da parte dei tradizionalisti ci devono essere ulteriori passi, quali?
Certamente la piena sottomissione al Sommo Pontefice, come del resto hanno già espresso, che include anche gli aspetti giurisdizionali: il Papa gode, infatti, di una potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente (cf. Can. 331 C.I.C.), e quindi dovrà esercitarla anche sulla Fraternità san Pio X.
Inoltre, ed è forse l’aspetto più sensibile a livello mediatico, la Fraternità dovrà accogliere i Testi ufficiali (che sono quelli in lingua latina) del Concilio ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutta la Tradizione bimillenaria della Chiesa cattolica, e non certamente secondo lo “spirito” di qualche teologo e, meno ancora, della cultura dominante.
Le polemiche - dure - da parte del mondo ebraico in particolare per le inaccettabili tesi negazioniste di uno dei vescovi "riabilitati" erano in qualche modo prevedibili. Perché Benedetto XVI ha corso un rischio così alto, soprattutto se si pensa che, in fondo, il numero degli scismatici lefebvriani è molto ridotto, in rapporto al popolo cristiano?
Le scelte ecclesiali di un Pontefice non possono obbedire a criteri di carattere numerico o politico, questi sono criteri mondani dai quali è necessario, con radicalità ed urgenza, liberarsi nel guardare al Corpo di Cristo che è la Chiesa. Togliere la scomunica, inoltre, non significa affatto “canonizzare” una persona o il suo pensiero. Le tesi negazioniste sono e rimangono assolutamente incondivisibili, ma si tratta di mere opinioni personali, suscettibili, è da sperare, di profonda revisione, che non possono essere valutate come determinanti la concessione o meno della remissione della scomunica.
Ma allora perché Papa Benedetto ha voluto compiere un gesto così politicamente spinoso proprio in un momento tanto delicato dei rapporti tra il Vaticano e il mondo ebraico?
In verità, la scelta di Sua Santità Benedetto XVI è in piena continuità con i passi esplicitamente voluti ed attuati dal Servo di Dio Giovanni Paolo II, di felice memoria, il quale volle l’istituzione della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ad hoc per i fedeli della Fraternità san Pio X e per tutti coloro che si riconoscevano nella celebrazione del rito cosiddetto di San Pio V. E’ quindi una scelta in piena continuità effettiva ed affettiva, con il precedente pontificato.
"Un frutto del Concilio Vaticano II": così sull'Osservatore Romano è stato definita la revoca della scomunica, mentre la parte "progressista" della Chiesa dice il contrario, parlando di un tradimento del Concilio. Dove sta la verità? Ci può spiegare bene cosa c'è in gioco in questa mano tesa ai tradizionalisti proprio rispetto alla visione di Benedetto XVI del Concilio Vaticano II?
Innanzitutto le categorie di “progressisti” e “tradizionalisti” sono ancora categorie politiche e storiche che mal si adattano alla Chiesa cattolica. Nella Chiesa siamo tutti tradizionalisti, nel senso che amiamo e viviamo nell’ininterrotta tradizione ecclesiale che ci fa essere Corpo unico da duemila anni e, nel contempo, siamo tutti “progressisti”, perché protesi verso il futuro, che è Cristo, e verso l’avvento definitivo del Suo Regno, già presente nel mondo attraverso la Chiesa cattolica.
Non di meno stupisce che proprio da coloro che, appellandosi al Concilio Vaticano II, desiderano l’eliminazione di ogni condanna e di ogni scomunica nella Chiesa, in nome di un certo irenismo, si abbia un atteggiamento tanto ostile nei confronti della Fraternità San Pio X.
Un vero cattolico, qualunque sia la sua sensibilità teologica e liturgica, non può che gioire del fatto che tanti fratelli, soprattutto se vescovi o sacerdoti, desiderino ritornare nel seno fecondo della Santa Madre Chiesa. Il resto è vana polemica e, mi si permetta, ideologia che mostra il proprio volto intollerante.
Riguardo al Concilio Vaticano II, il Santo Padre ha espresso la propria valutazione nello storico discorso (che tutti dovremmo studiare bene) del 22 dicembre 2005, rivolto alla Curia Romana. La questione non è, ovviamente, sui Testi del Concilio, in se stessi, ma sull’ermeneutica, cioè sulla loro corretta interpretazione. Il Papa ha individuato due ermeneutiche: quella della discontinuità e della rottura e quella della continuità e della riforma. Per intenderci la prima afferma che il Vaticano II sarebbe stato “un nuovo inizio della Chiesa”, mentre la seconda attesta la riforma della Chiesa in continuità con la Tradizione precedente. Il Santo Padre ha affermato esplicitamente che la prima interpretazione, talvolta apparentemente maggioritaria, soprattutto ad opera dei media, è errata ed ha portato confusione nella Chiesa e nei fedeli, mentre la seconda è quella corretta e, lentamente, sta portando frutti.
E in questo senso, si può dire che già col Motu proprio che ha liberalizzato il rito tridentino il Papa ha voluto salvaguardare la Tradizione, la liturgia e la libertà nella Chiesa?
Certamente, e forse di più. Il Motu Proprio ci dice che non esistono due riti differenti, ma un unico rito latino, in due forme, una ordinaria e l’altra straordinaria, le quali, nel tempo, dovranno fecondarsi reciprocamente. Ogni autentico liberale, non può che gioire del fatto che ci sia una “possibilità in più” nella liturgia della Chiesa. Del resto, i cari fratelli orientali, con cui spesso il dialogo è tanto intenso e fecondo, hanno almeno tre differenti forme di celebrare, per esempio, l’unico rito bizantino. La Chiesa non deve mai dividersi, per mere questioni rituali, a meno che esse non implichino una differente soggiacente concezione teologica sostanziale. Cosa che assolutamente non accade, né potrebbe accadere, per l’utilizzo di un Rito, detto di san Pio V, ma in realtà di Gregorio Magno, che ha prodotto enormi frutti nella vita e nella santità della Chiesa.

 
Fonte: 28 Gennaio 2009