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« Torna agli articoli di Lucia Bellaspiga
«La mattina di quel 12 settembre ero baldanzoso come un bambino e non sapevo che Caterina, la mia Caterina, doveva morire quella sera stessa. Era scritto che alle 21,30 sarebbe finito il mondo. Per me. Per sempre. O sarebbe cominciato un nuovo mondo». Inizia così, senza preavviso (come la gran parte delle tragedie) la tragedia di Caterina Socci, studentessa 24enne il cui cuore una sera senza alcun motivo si stanca di battere. Mancano dodici giorni alla sua laurea e in famiglia la vita sembra procedere senza sussulti, addirittura gioiosa («Non c’è nessuno più felice al mondo!», afferma quel mattino suo padre), tanto che la madre, con il buon senso di tutte le Cassandre, sorride allarmata: «Non dirlo, per carità... Non si sa mai cosa ci riserva la vita». E difatti quella sera di quasi un anno fa «il telefono squillò alle 21,30». Comincia con uno squillo di telefono la gran parte delle storie di ragazzi (sono migliaia in Italia) che, per un incidente d’auto o uno scherzo del cuore, cadono in stato vegetativo. E con la sentenza di medici che non lasciano speranza: «Le hanno tentate tutte per rianimarla, ormai stanno mollando»... In "Caterina, diario di un padre nella tempesta" (Rizzoli) Antonio Socci, noto giornalista, racconta il travaglio di questa sua figlia teneramente amata, ma è subito evidente che la cronaca del suo calvario è solo un pretesto per dire molto di più: di quanto accade nel letto di Caterina si sa poco, lo stretto indispensabile (dal primo capitolo, quando leggiamo che incredibilmente dopo un’ora e mezza il suo cuore si è rimesso in moto, solo a pagina 189 scopriamo che oggi "si è svegliata dal coma ed è cosciente"). Caterina non è la protagonista, è l’espediente: il perno, il motore immobile intorno al quale si genera il vero miracolo da raccontare. Da quel 12 settembre 2009, infatti, un popolo immenso si è mosso attorno a lei, migliaia di persone che non l’hanno mai conosciuta hanno rivolto una supplica a Dio, hanno camminato accanto a un padre e una madre nella tempesta. Più di uno addirittura (e sono le lettere più toccanti) essendo malato terminale ha offerto le proprie sofferenze in cambio della guarigione di Caterina, qualcun altro i suoi ultimi mesi di vita purché lei riaprisse gli occhi. «Ho chiesto a Gesù di darmi la vostra croce per un po’. Vorrei essere il vostro cireneo», ha osato una madre. Socci racconta tutto questo con commosso stupore, certo del fatto che il sacrificio di Caterina (e di tanti altri figli come lei) è origine e causa di insperate conversioni: «Quale mondo perverso stanno salvando i ragazzi e le ragazze crocifissi in questo reparto di rianimazione?». Non vite inutili, dunque, ma «le truppe scelte da Gesù in persona, i temerari, gli avventurieri del suo amore sconfinato». All’indomani dell’arresto cardiaco, mentre di ora in ora la paura della morte lascia spazio a un incubo non meno spaventoso, quello di «danni immensi, devastanti, probabilmente irrecuperabili», è Socci stesso che chiama a raccolta chiunque possa offrire la forza della preghiera, ma poi la marea monta spontanea: ottomila e-mail irrompono nel suo blog, gli raccontano di figli che ce l’hanno fatta contro ogni previsione dei medici, lo implorano di non cedere, gli offrono la propria preghiera anche di non credenti ("Un giorno, quando potrò, racconterò quante persone che si dicono atee o agnostiche, per tenerezza verso Caterina, in queste ore hanno ricominciato a pregare", scrive Socci). Ce lo ripete al telefono, seduto accanto a lei: «La mia figlia crocifissa ha convertito tante persone». E prima di tutti ha convertito lui, fervente cattolico ma «fino a quel 12 settembre diverso da oggi». La cosa che ha più imparato in questi mesi «è a prendere alla lettera l’insistenza di Gesù che nel Vangelo ci dice di chiedere, di importunarlo per essere esauditi. Gesù si fa strappare letteralmente i miracoli, a iniziare da Cana quando a insistere è Maria. Prima io supplicavo, chiedevo grazie, ma in fondo restava sempre un atomo di scetticismo, quasi che la preghiera fosse un messaggio in bottiglia gettato nel mare... Fino al 12 settembre pensavo: lui può tutto, se vuole la guarirà. Ora invece mi sono fatto mendicante, chiederò e busserò fino all’ultimo respiro. È questa la mia conversione». C’è un uomo più potente di Dio - ricorda il Curato d’Ars -, ed è l’uomo che prega. "Il regno dei Cieli appartiene ai violenti", ci provoca il Vangelo. «Dunque noi abbiamo preso d’assalto il Cielo», confessa Socci. Attraverso le tante lettere che riporta, incontriamo un numero impressionante di storie di speranza, di figli dati per persi dalla neurologia e invece risvegliati ("Ai medici disperati io rispondevo con una totale fiducia nel loro lavoro - scrive una madre -, li incoraggiavo dicendo che stavo pregando per loro, per le loro mani"), o invece di genitori che in silenzio, senza apparire sui giornali, eroicamente amano i loro ragazzi addormentati, senza aspettarsi in cambio neanche un battito di ciglia. «Sono loro che mi hanno consolato, mi hanno scritto di lottare anche contro l’evidenza, di pregare da mattina a sera. Non immaginavo potesse esistere qualcosa del genere». È soprattutto per loro che è nato questo libro (50mila copie e cinque edizioni nelle prime due settimane), «per ringraziare i tantissimi cui non ho potuto rispondere - spiega Socci -. E poi per restituire un patrimonio di testimonianze che non potevo tenere solo per me, perché tanti altri genitori hanno bisogno di sapere che quando tutto sembra perduto c’è ancora qualcosa da fare, pregare, pregare e pregare». Ma anche per far conoscere quegli eroi silenziosi, «genitori speciali che portano croci incredibili». Infine tendere una mano concreta ai sofferenti: «Il dolore del mondo è un oceano sconfinato. Se facciamo la nostra piccola parte, al resto pensa la Madre dolce e benedetta. Con i diritti d’autore di questo libro aiuterò, finché avrò respiro, opere missionarie e di carità». Col suo risveglio Caterina ha contraddetto la scienza. Poi lo ha rifatto pronunciando una notte la parola della rinascita, «mamma». Ora la battaglia resta lunga e difficile, ogni giorno forse un piccolo progresso, «ma l’unica cosa certa è il lieto fine, perché vince sempre Lui», conclude suo padre. «Comunque vada». Anche se Caterina restasse inchiodata per sempre al suo letto, incapace più di cantare come faceva una volta, di correre o anche solo di vedere. Ferma sempre a dodici giorni dalla sua laurea. Parole vertiginose, «così pesanti da dire...», ma che grondano dolore e magnificenza. La lezione, ancora una volta, gli viene da Caterina, che alla scomparsa di don Giussani aveva scritto l’unica verità: la morte non ha l’ultima parola.
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