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« Torna agli articoli di Mario
Secondo il Consiglio d'Europa, l'Italia è maglia nera nell'applicazione delle sentenze pronunciate dagli organi dell'Unione. La Corte europea per i diritti dell'uomo pronuncia una quantità industriale di sentenze di condanna verso il nostro Paese, censurando soprattutto la lentezza dei processi e il ritardo nei risarcimenti. Ma l'Italia non sembra aver voglia di tenerne conto, e risulta la nazione più inadempiente del continente, al punto da primeggiare nella classifica negativa.
Per una volta, gli organismi europei mettono l'accento su un problema reale: l'Italia ha un sistema-giustizia che non funziona, e che determina gravissime conseguenze per le persone che finiscono nei suoi ingranaggi. Nel 2010 lo Stato ha dovuto indennizzare cittadini che hanno vinto il ricorso alla Corte europea per oltre sei milioni di euro. Nel 2011 la cifra è salita a otto milioni e mezzo. Processi lenti e richieste di risarcimento sono facce della stessa medaglia, che dicono una cosa sola: il nostro sistema giudiziario ha delle pecche enormi che devono essere rimosse.
E non tanto perché ce lo dice l'Unione Europea che, in quanto a pecche, non potrebbe dare lezioni a nessuno. Ma per riguardo a un principio assoluto e inderogabile: quello per cui lo Stato deve assicurare meccanismi di accertamento della verità processuale rapidi e sicuri per ogni persona coinvolta.
Perché la situazione si è incancrenita fino a questo punto, e come è possibile che l'Italia abbia accumulato più censure della Turchia in materia di processi? Qui occorre affondare il coltello nella piaga, e riconoscere una radice malata del nostro sistema: l'Italia è nata in un contesto storico, politico e ideologico che considerava lo Stato una sorta di "grande uomo", una creatura antropomorfa dotata di interessi suoi propri, autonomi e indipendenti rispetto a quelli di ogni singolo cittadino. Questa idea ha plasmato profondamente il rapporto tra istituzioni e società, definendo una sorta di invincibile primato dello stato sull'uomo. Questa idea è profondamente disumana, ed è anche per questo che il nascente stato nazionale sabaudo ha incontrato sulla sua strada sacche importanti di resistenza sul territorio, che ha voluto spesso sedare nel sangue e nella violenza.
Ora, questa primazia dello stato e dei suoi interessi ha attraversato le epoche storiche e i regimi susseguitisi nel tempo, rimanendo l'unica costante immutabile: dal governo della destra storica a quello della sinistra storica; dal fascismo alla democrazia; dalla monarchia alla repubblica: moltissimo cambiava, tranne questa concezione - sostanzialmente hegeliana - per la quale l'uomo è in funzione dello Stato, e non viceversa. Non è un caso che ancora oggi lo Stato possa essere un debitore che paga quando vuole, e che nello stesso tempo esige dai sudditi pagamenti tempestivi sguinzagliandogli contro il mastino Equitalia.
Anche il sistema giudiziario e il processo risentono radicalmente di questa concezione malata: per cui l'organo giudiziario si sente tendenzialmente autorizzato a indagare, rovistare, intercettare, processare, in vista di un bene astratto dello Stato; e la persona rischia di essere stritolata dentro questa macchina tritacarne, di essere esposta al dramma di un procedimento penale magari lunghissimo e tendenzialmente infamante, per poi essere riconosciuto, alla fine, innocente.
Ovviamente non tutti i magistrati agiscono così, e non tutti gli imputati sono agnelli innocenti condotti al macello. Anche nella concezione liberale - che spesso finisce con il paralizzare la funzione inquirente della pubblica accusa - vi è molto di mitologico e di parziale. E tuttavia, su di un punto dovremmo essere tutti d'accordo: le persone sono tutte processabili, ma sulla base di indizi seri e di indagini accurate; e tutti devono avere un processo rapido e rispettoso delle garanzie fondamentali della difesa.
Il Magistrato è un uomo, e come tale può sbagliare, e dunque perseguire un cittadino che uscirà assolto dal processo. Ma un magistrato non dovrebbe mai, per nessuna ragione al mondo, essere un partigiano, un sostenitore di una parte contro un'altra, un uomo che pensa di salvare il mondo con l'uso dei codici e delle indagini.
La reprimenda del Consiglio d'Europa è particolarmente bruciante, se si pensa che la nostra tradizione giuridica non ha proprio nulla da imparare da quella degli altri Paesi dell'Unione; e se si pensa che competenze investigative, saggezza giudiziaria e senso di umanità non sono affatto estranei alle nostre forze dell'ordine e alla nostra magistratura. Non tutto è da buttare, anzi. Ma in Italia urge una riforma, radicale: rimettere al suo posto la funzione giudiziaria, che in questi decenni si è trasformata in un potere spesso arbitrario e capriccioso. Chiedere ai tecnici di mettere mano a questo bubbone sarebbe molto rischioso: tocca alla politica trovare una soluzione. E questo è il problema.
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