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« Torna agli articoli di Massimo Introvigne
C'è qualche cosa di patetico nel vedere il segretario del PD Bersani, che solo un mese fa aveva definito l'ipotesi di sciopero generale «irrazionale e inutile», ballare anche lui in piazza al suono della musica scelta e suonata dalla segretaria della CGIL Susanna Camusso. Ma in verità non è meno patetica la rincorsa di tanti politici di centro-destra a «correggere» la manovra economica ogni volta che l'oracolo delle borse internazionali rende il suo capriccioso responso, cioè – di questi tempi – quasi tutti i giorni.
Tutti cercano soluzioni immediate, e le riflessioni dottrinali sono poco di moda. Le propone quasi solo il Papa, il quale ancora nel viaggio a Madrid per la GMG ha ripetuto che la soluzione della crisi economica non può venire dall'economia perché «la dimensione etica non è una cosa esteriore ai problemi economici, ma una dimensione interiore e fondamentale». È davvero necessario fermarsi a riflettere sulla crisi attuale come crisi del primato dell'economia, anche se la riflessione ci porta necessariamente lontano, addirittura a prima del cristianesimo.
L'idea che l'economia sia la dimensione fondamentale della realtà sociale è per noi un luogo comune, tanto che pensiamo che si tratti di un'idea «naturale» e che sia sempre stato così. Ma non è vero. Antropologi e sociologi hanno mostrato da tempo che tutte le culture tradizionali – in Oriente come in Occidente, con una corrispondenza tra civiltà lontanissime che è persino misteriosa – hanno concepito la società come composta di tre ordini: i sacerdoti, i guerrieri e i produttori, con una gerarchia che vedeva i sacerdoti al vertice. Friedrich Nietzsche (1844-1900) – che aveva nostalgia di questa gerarchia e detestava i cristiani – ci ha trasmesso l'idea che il cristianesimo, con la sua idea secondo lui molto dannosa dell'uguaglianza, ha sovvertito l'ordine della società portando dopo vari passaggi al mondo moderno, dove i produttori – gli uomini dell'economia e del commercio –, dal momento che sono in maggioranza, sono al vertice, così che la struttura tradizionale si è esattamente rovesciata.
Nietzsche ha una parte di ragione e una – essenziale – di torto. Certamente il cristianesimo ha eliminato ogni nozione di casta o di destino fissato ineluttabilmente dalla nascita. In India – in parte ancora oggi – solo il figlio di un sacerdote può diventare sacerdote, e il figlio di un contadino dovrà restare contadino. Anche nella civile Grecia antica il figlio di uno schiavo nasceva e restava schiavo. Gesù Cristo spezza questa catena. Un pescatore, Pietro, diventa la più alta autorità sacerdotale che il mondo conosca. Da allora non si contano i figli di contadini e di artigiani che diventano abati, vescovi e anche Papi – talora grandi condottieri e generali. E la Chiesa insegna che un contadino o un carpentiere ha la stessa possibilità di salvarsi e di diventare santo di un Papa o di un re.
La Chiesa, però, non insegna che il carpentiere o il contadino – finché rimane tale – ha la stessa competenza del Papa nel determinare la verità della fede, o gli stessi compiti politici del re. È sufficiente leggere san Bernardo (1090-1153) o san Tommaso (1225-1274) per convincerci che nella civiltà cristiana del Medioevo la gerarchia dei tre ordini rimane immutata. Spetta ai sacerdoti – guidati dal Papa e dai vescovi – indicare i fini ultimi della società, e alle autorità civili - che nel Medioevo sono anche militari – determinare i mezzi per realizzare questi fini. I produttori sono indispensabili al funzionamento della società, ma non sono loro a determinarne gli orientamenti.
Semmai è il protestantesimo che, abolendo il sacerdozio ministeriale e gli ordini religiosi e sostenendo in alcune sue correnti che il successo negli affari è segno di predestinazione al Paradiso, inizia a sovvertire le idee tradizionali sulla società. Sta qui il nucleo di verità della discussa tesi del sociologo Max Weber (1864-1920) sul moderno ordinamento economico come figlio del protestantesimo. Di qui a poco a poco si fa strada la nozione della superiorità dei mercanti e degli uomini d'affari sugli intellettuali – cui si estende il sospetto che si tratti di fannulloni, lanciato dai primi protestanti contro i sacerdoti e i religiosi – e i capi politici e militari, che a differenza degli imprenditori sarebbero violenti e corrotti. Immanuel Kant (1724-1804) è il primo a teorizzare che un mondo guidato da mercanti e banchieri sarebbe un mondo di pace e non di guerra.
Con Kant il moderno primato dell'economia è già formulato. Karl Marx (1818-1883) si limita a sostituire i lavoratori del braccio, i «proletari», agli imprenditori – cui estende le accuse di parassitismo – come la classe chiamata a guidare la società. I teorici del liberismo classico successori di Adam Smith (1723-1790) difendono le buone ragioni del governo degli imprenditori rispetto a quello dei lavoratori. Ma nessuno mette in discussione l'idea del primato dell'economia, che nel secolo XIX entra nell'immaginario collettivo occidentale. È l'economia a guidare la società. Se le borse – o i sindacati – bocciano un governo questo se ne deve andare. L'unica struttura, per dirla con Marx, è quella economica. Politica, cultura, religione sono solo sovrastrutture – più o meno utili, ma per Marx la religione è la più inutile di tutte – continuamente prodotte, scartate e prodotte di nuovo dall'economia.
Beninteso, nei regimi e nei partiti comunisti c'è un trucco. Chi afferma di parlare in nome dei lavoratori spesso è un intellettuale che non ha mai lavorato in vita sua. Il rapporto fra la Camusso e Bersani al tempo di Palmiro Togliatti (1893-1964) era esattamente rovesciato. Il leader comunista italiano teorizzava la funzione del sindacato come cinghia di trasmissione degli ordini del partito. Non perché Togliatti mettesse in discussione il primato dell'economia, tutt'altro. Ma perché, da buon comunista, affermava che è il partito a conoscere meglio di chiunque altro quali sono i veri interessi dei lavoratori.
C'è chi – per esempio il filosofo canadese Charles Taylor – ha letto la storia dei regimi totalitari del secolo XX, fascisti e comunisti, come tentativi – falliti – di opporsi al primato dell'economia, pur rendendogli in molti casi ancora un teorico omaggio. Oggi il primato dell'economia non ha rivali. È entrato nella nostra mentalità. Ci sembra un fatto naturale come sono naturali le albe e i tramonti. Che la politica e la cultura debbano obbedire all'economia, che i fini ultimi della società debbano essere indicati dai poteri forti economici – fra cui naturalmente ci sono anche i sindacati – o almeno con la loro approvazione ci sembra normale e fuori discussione.
Ma il primato dell'economia garantisce il migliore dei mondi possibili? Kant lo pensava. Oggi sappiamo che non è così. Forse la crisi economica che stiamo vivendo – per molti, ormai, la più grave nella storia dell'Occidente – è la campana che suona per mettere in dubbio il primato dell'economia, che è il motore di quella che Benedetto XVI chiama nella Caritas in veritate «tecnocrazia». Ci affanniamo a cercare soluzioni economiche della crisi economica, e certamente questo è in una certa misura necessario. Ma ultimamente la voce di Benedetto XVI sembra l'unica ragionevole, quando afferma che non usciremo dalla crisi se non rimetteremo in discussione il primato dell'economia. Se non torneremo ad affermare che spetta all'etica – secondo la ragione e secondo la fede, in dialogo fra loro – indicare i fini della società. E spetta alla politica, quella vera, indicare i mezzi per realizzare tali fini. La politica funziona se accetta di avere un limite nell'etica.
L'economia funziona se accetta di essere guidata dall'etica e dalla politica. Non funziona se pretende di sostituirle, o se si crede onnipotente. Non si tratta di tornare al Medioevo, ma di tornare ai principi di una civiltà naturale e cristiana che sono veri a prescindere da come e quanto le epoche storiche li abbiano affermati o negati. La strada è lunga. Ma non ce ne sono altre.
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