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« Torna agli articoli di Massimo Introvigne
Il parroco vi invita a un evento dove si vendono i biglietti di Natale dell'UNICEF, noncurante del fatto che questa organizzazione delle Nazioni Unite è a favore degli anticoncezionali e dell'aborto? In oratorio si raccolgono offerte per quell'ordine di suore americano che si dichiara a favore del matrimonio omosessuale e della politica abortista del presidente Obama? Da oggi potete rispondere, senza timore di sbagliarvi, che si tratta di pratiche non cattoliche, vietate dal Papa, e su cui il vescovo ha il dovere di vigilare. Tutto questo infatti sta scritto, nero su bianco, nel motu proprio «Sul servizio della carità» di Benedetto XVI, formalmente datato 11 novembre 2012 e pubblicato nei giorni scorsi.
Fin dalla sua prima enciclica «Deus caritas est», del 2005, il Papa aveva rivelato che, certo, Dio è «caritas», amore e carità, ma su quello che fa la Caritas nella propria diocesi ciascun vescovo farebbe bene a vigilare. E che il mondo delle raccolte di fondi e della beneficenza cattolica è diventato una giungla, dove è obbligatorio mettere ordine prima che scoppi il prossimo scandalo. Questo avveniva, appunto, nel 2005, ma come sempre il Pontefice ha parlato e ben pochi gli hanno dato retta. Ecco allora che, passati sette anni, Benedetto XVI ci riprova con un motu proprio che detta norme piuttosto precise e stringenti sul tema.
Il Papa ricorda anzitutto, citando la «Deus caritas est», che la carità è uno dei tre servizi fondamentali della Chiesa, insieme alla predicazione della verità e della liturgia. Ma questi tre ambiti non vanno mai separati. «L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l'uno dall'altro».
Dunque a differenza delle organizzazioni umanitarie generiche quelle cattoliche devono offrire «all'uomo contemporaneo non solo aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima». Se offrono solo l'aiuto materiale, e si dimenticano della buona dottrina, forse fanno anche del bene a modo loro ma non sono organizzazioni cattoliche.
La «prima responsabilità» e la garanzia data ai fedeli che le organizzazioni che sollecitano le loro offerte sono davvero cattoliche spetta ai vescovi. La carità, infatti, «è strettamente collegata alla natura diaconale della Chiesa e del ministero episcopale». Il diritto canonico fino a oggi si è occupato abbastanza poco di questo aspetto. È una lacuna che il nuovo motu proprio intende colmare.
Qual è il criterio che i vescovi devono applicare? Il Pontefice lo riprende ancora dalla «Deus caritas est»: «nell'attività caritativa, le tante organizzazioni cattoliche non devono limitarsi ad una mera raccolta o distribuzione di fondi, ma devono sempre avere una speciale attenzione per la persona che è nel bisogno e svolgere, altresì, una preziosa funzione pedagogica nella comunità cristiana», annunciando sistematicamente la fede e la buona dottrina. «L'attività caritativa della Chiesa, infatti, a tutti i livelli, deve evitare il rischio di dissolversi nella comune organizzazione assistenziale, divenendone una semplice variante».
Accanto alle Caritas diocesane e alle istituzioni analoghe, espressioni ufficiali della Chiesa di cui i vescovi sono direttamente responsabili, oggi esistono numerose organizzazioni che sono frutto della libertà di associazione che il Concilio Ecumenico Vaticano II riconosce ai laici, di cui i presuli devono rispettare la «legittima autonomia». Tuttavia, se queste associazioni laicali si presentano come cattoliche o richiedono e ottengono il sostegno di vescovi o sacerdoti, allora «occorre garantire che la loro gestione sia realizzata in accordo con le esigenze dell'insegnamento della Chiesa e con le intenzioni dei fedeli, e che rispettino anche le legittime norme date dall'autorità civile». Pertanto anche qui deve scattare la vigilanza del vescovo, per evitare anzitutto che - per malizia o per imperizia - si violino le leggi civili dando origine a scandali che colpiscono l'immagine della Chiesa, e in secondo luogo perché non siano presentate ai fedeli come cattoliche organizzazioni le cui idee e pubblicazioni sono in contrasto con la dottrina cattolica, il che oggi avviene più spesso sul terreno dei principi che il Papa chiama non negoziabili e che riguardano la vita e la famiglia.
Il motu proprio dispone che, se un'associazione o fondazione caritativa liberamente promossa da fedeli cattolici sollecita aiuti dichiarandosi cattolica o presentandosi nelle parrocchie, deve «sottoporre i propri Statuti all'approvazione della competente autorità ecclesiastica ed osservare le norme» del nuovo documento. Questo vale anche per le associazioni e fondazioni promosse da ordini religiosi. Il documento tiene conto che oggi non si può dare per scontato che un'opera di carità promossa, anziché da laici, da religiosi o da suore rispetti sempre la buona dottrina. Anche queste associazioni, come tutte le altre, «sono tenute a seguire nella propria attività i principi cattolici e non possono accettare impegni che in qualche misura possano condizionare l'osservanza dei suddetti principi».
«Un organismo caritativo può usare la denominazione di "cattolico" solo con il consenso scritto dell'autorità competente», che ne dovrà valutare la dottrina e non solo l'origine. «Spetta al rispettivo Vescovo diocesano vigilare», e prevenire anche eventuali violazioni della legge degli Stati.
C'è di più. Una volta approvate dal vescovo, le organizzazioni caritative che si presentano come cattoliche o chiedono aiuto alle parrocchie «sono tenute a selezionare i propri operatori tra persone che condividano, o almeno rispettino, l'identità cattolica di queste opere». Non solo un'organizzazione caritativa cattolica non può essere abortista o distribuire anticoncezionali in Africa - sembrerebbe ovvio, ma purtroppo non lo è - ma non può neanche assumere personale magari qualificato sul piano professionale ma noto per le sue posizioni in favore dell'aborto o della pillola anticoncezionale. «È dovere del Vescovo diocesano e dei rispettivi parroci evitare che in questa materia i fedeli possano essere indotti in errore o in malintesi, sicché dovranno impedire che attraverso le strutture parrocchiali o diocesane vengano pubblicizzate iniziative che, pur presentandosi con finalità di carità, proponessero scelte o metodi contrari all'insegnamento della Chiesa».
Il vescovo non può disinteressarsi di queste materie. Con il motu proprio diventa direttamente responsabile del fatto che le offerte raccolte tramite le parrocchie o la diocesi siano usate per il fine che è stato indicato ai fedeli, e deve anche accertarsi che gli organismi cattolici approvati non «siano finanziati da enti o istituzioni che perseguono fini in contrasto con la dottrina della Chiesa. Parimenti, per non dare scandalo ai fedeli, il Vescovo diocesano deve evitare che organismi caritativi accettino contributi per iniziative che, nella finalità o nei mezzi per raggiungerle, non corrispondano alla dottrina della Chiesa». L'esempio della distribuzione di anticoncezionali in Africa o altrove, o del sostegno a ospedali dove si praticano aborti, corrisponde a casi concreti e viene subito alla mente.
Il Papa conosce certamente anche l'ampia letteratura che documenta come - anche quando le organizzazioni caritative sono gestite in modo assolutamente onesto - solo una percentuale minoritaria delle offerte raccolte arriva ai destinatari indicati ai donatori perché la maggioranza del denaro serve a coprire le spese di gestione, gli stipendi al personale e le campagne pubblicitarie. Ecco allora la raccomandazione che, quando si tratta di organizzazioni cattoliche, «il Vescovo curi che la gestione delle iniziative da lui dipendenti sia testimonianza di sobrietà cristiana. A tale scopo vigilerà affinché stipendi e spese di gestione, pur rispondendo alle esigenze della giustizia ed ai necessari profili professionali, siano debitamente proporzionate ad analoghe spese della propria Curia diocesana»: dove, com'è noto, gli stipendi che corrono sono molto modesti.
Che cosa deve fare il vescovo se un organismo che si dice cattolico non rispetta la dottrina proposta dal Magistero? Può accontentarsi di ammonirlo blandamente dietro le quinte? Non proprio, risponde il Papa. «Il Vescovo diocesano è tenuto, se necessario, a rendere pubblico ai propri fedeli il fatto che l'attività d'un determinato organismo di carità non risponda più alle esigenze dell'insegnamento della Chiesa, proibendo allora l'uso del nome "cattolico" ed adottando i provvedimenti pertinenti ove si profilassero responsabilità personali». In breve, il vescovo ha «il dovere» - non solo il diritto - di «vigilare perché le attività realizzate nella propria diocesi si svolgano conformemente alla disciplina ecclesiastica, proibendole o adottando eventualmente i provvedimenti necessari se non la rispettassero». Dove non provvedesse il vescovo, la competenza è attribuita al Pontifico Consiglio «Cor Unum», che deve anche vigilare sugli organismi internazionali.
La clausola di autorità di rito aggiunta da Benedetto XVI al motu proprio - «ordino che sia osservato in tutte le sue parti, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione sul quotidiano "L'Osservatore Romano", ed entri in vigore il giorno 10 dicembre 2012» - esclude che si tratti di semplici consigli. Sono norme canoniche, che vanno osservate. Alla prossima raccolta di fondi in parrocchia per organismi caritativi - non importa se promossi da sacerdoti o ordini religiosi - favorevoli agli anticoncezionali o all'aborto, o che si schierano in politica in modo difforme dalla dottrina sociale della Chiesa, il fedele avrà un vero diritto di chiedere che queste attività cessino immediatamente e di rivolgersi al vescovo perché le norme del motu proprio siano tempestivamente applicate.
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