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« Torna agli articoli di Mauro Faverzani
«Pietro negò di nuovo e subito un gallo cantò» (Gv. 18, 27). Il canto del gallo è da sempre il segnale del rinnegamento. Ed il Gallo ha cantato ancora. Don Andrea Gallo, per la precisione. È stato lui stesso a rendersi conto di avere esagerato col suo ultimo libro, Come un cane in chiesa , realizzato a quattro mani con Vauro, il vignettista convintamente di sinistra, cui ha confidato: «Questa è la volta che mi scomunicano». Il che non lo ha fermato, anzi lo ha esaltato, dimenticandosi completamente del fatto che la prudenza sia una delle quattro virtù cardinali.
Due anni fa disse di non voler più pubblicare per Mondadori, ma questo suo ultimo libro è stato edito da Piemme, che del gruppo Mondadori fa parte. Evidentemente, oltre alla prudenza, anche la coerenza a don Gallo fa difetto. Ama definirsi un «prete del Concilio», il che non rende un gran servizio al Vaticano II, da lui stesso definito «resistenza partigiana in terra vaticana».
Amico e sostenitore di molti esponenti della sinistra anche estrema, Radicali compresi, nel 2006 si fece multare, perché si appostò con lo spinello in mano presso palazzo comunale, a Genova, come forma di "disobbedienza civile", per invocare la legalizzazione delle droghe leggere; nel 2009 partecipò al Gay Pride di Genova; nel 2011 ha ricevuto da "Gay.it" il titolo di «Personaggio gay dell'anno»; quest'anno ha presentato il primo calendario trans realizzato in Italia. Ama Savonarola, tanto da dedicarvi uno spettacolo teatrale dal titolo Io non taccio, spettacolo che sta portando in giro per l'Italia. Insomma, non occorre esser teologi, per capire come da sempre questo prete violi le più elementari norme della dottrina cattolica e calpesti manifestamente le indicazioni del Magistero tanto quanto i precetti del Catechismo e del Codice di Diritto Canonico.
Gli si potrebbe riconoscere la sola attenuante del peso dei suoi 84 anni, che ad alcuni fanno brutti scherzi: ma ha passato talmente il limite da non bastar più a giustificare l'ingiustificabile. Anche perché l'anagrafe non gli impedisce per altri versi di imperversare su Facebook e Twitter come un ragazzino chat-dipendente. Lo stesso magazine del "Corriere della Sera", "Sette", sul numero del 2 novembre scorso, è stato quanto mai ammiccante nel presentare in toni entusiastici questo prete ed il suo libro, definito «abrasivo, dove le vignette spretate di Vauro funzionano, anziché da provocazione sulfurea, quasi da alleggerimento» alle sue parole «queste sì, spietate».
Ne ha per tutti, vomita i suoi veleni senza freni, senza controllo. Tanto da non risparmiare neppure Papa Benedetto XVI, ch'egli definisce un «sepolcro imbiancato», "rintanato" in un «nascondiglio dorato». Accusa la Chiesa di esser divenuta «una cappellania dei potenti». Per lui si salva solo la Costituzione. Sacerdoti così sono il massimo che la stampa laicista possa desiderare di incontrare. Ma non fanno il bene della Chiesa, né tanto meno, scagliandosi contro Essa e contro Pietro, possono dirsi veri discepoli di Nostro Signore Gesù Cristo ed autentici testimoni del Vangelo: cavalcano anzi la più scontata demagogia populista ed un pauperismo terzomondista, così miserrimo da far impallidire anche la più spavalda "teologia della liberazione". Che, non a caso, fu a suo tempo condannata. E lui, quando?
Quando il timore, ch'egli stesso ha espresso, si tradurrà in realtà con seri provvedimenti disciplinari da parte dell'Autorità competente? Ed anzi, come mai non ancora? Lo strappo è evidente: che si attende? Permettere ancora a simili personaggi di circolare impunemente rafforza l'idea che, tutto sommato, nella Chiesa del post-Concilio tutto sia loro permesso. Con le evidenti conseguenze del caso.
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