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« Torna agli articoli di Michele
Ora che l’Epifania ha spazzato via le feste e che l’anno comincia davvero, è il momento di affrontare seriamente la crisi tanto annunciata e di prendere alla lettera l’appello del presidente Napolitano: pensare alle riforme necessarie per uscire dal pantano.
Mi chiedo se tra le tante riforme non ce ne debba essere anche una che riguarda noi operatori dell’informazione. Una riforma mentale, voglio dire. Mi spiego. Se è vero - ed è vero - che con il pessimismo non si costruisce nulla, anzi si peggiora la situazione e si istiga, se non al suicidio, quantomeno alla depressione, non c’è dubbio che giornali e tv stiano assolvendo spesso nel migliore (o peggiore) dei modi al ruolo che pare abbiano deciso di assumere: quello dei catastrofisti.
Comincio con le notizie economiche. Premetto di non capire nulla, di economia. Ma proprio perché semplice uomo della strada, mi considero a pieno titolo un bersaglio, anzi una vittima del terrorismo mediatico in materia. Faccio alcuni esempi.
Fino a qualche mese fa, era tutto un piangersi addosso per il continuo crescere del prezzo del petrolio. Quando era a 150 dollari al barile leggevamo: è un disastro, e gli esperti assicurano che il peggio deve ancora venire perché il prezzo salirà. A dimostrazione di quanto aveva ragione Longanesi quando diceva che l’esperto è un signore pagato per essere smentito da un altro esperto, il prezzo è invece sceso, fino agli attuali (all’incirca) 40 dollari al barile. Un perfetto ignorante come il sottoscritto si aspettava dai colleghi dell’economia un grido di esultanza, o quantomeno un sospiro di sollievo. Invece no: il prezzo cala? Brutto segno: è la spia della recessione.
Altro esempio l’inflazione. Per anni è cresciuta senza interruzioni e sui giornali leggevamo appunto di «allarme inflazione», di rischio di non arrivare alla fine del mese, di incubo della terza settimana e così via. A un certo punto si è fermata. I prezzi hanno cominciato a scendere. Evviva? Un corno. «C’è il rischio deflazione, un disastro», abbiamo cominciato a leggere. L’uomo della strada è disorientato ma l’esperto spiega: se i prezzi scendono è una sciagura, vuol dire che non c’è domanda. Anche in questo caso la sentenza è: recessione.
E il mercato immobiliare? Che tragedia quando i prezzi continuavano a crescere, «la casa è un miraggio, impossibile sposarsi, le coppie sentono di non avere un futuro». Ora i prezzi hanno la freccia all’ingiù, ma «vuol dire che un intero settore è fermo, cala l’occupazione». Comunque vadano le cose, è sempre un male. L’euro guadagna sul dollaro? Una iattura perché siamo svantaggiati nelle esportazioni. L’euro perde sul dollaro? Una sventura perché siamo più deboli e i viaggi all’estero diventano un lusso. E la Cina? Quando andava a mille si intonava il de profundis: con il basso costo della manodopera, questi ci mangiano. A un certo punto la Cina ha cominciato a entrare in crisi e i sempliciotti che si aspettavano un nostro riscatto sono stati freddati da una nuova lucida analisi: ormai la Cina è un mercato talmente vasto che, se crolla, trascina tutti nel baratro.
Insomma è un’angoscia continua. Dall’economia a ogni altro aspetto della nostra miserabile vita. Se non piove, è allarme siccità. Se piove, è allarme maltempo. Quando si sparava la neve sulle piste con i cannoni, si piangeva per la crisi del turismo invernale. Adesso che nevica, è emergenza trasporti. Se fa caldo è «afa killer»; se fa freddo siamo «nella morsa del gelo».
Di questo cupo scenario siamo tutti responsabili, naturalmente. Non per polemica, però, mi permetto di dichiararmi colpito, in particolare, da uno dei più grandi e autorevoli quotidiani italiani, Repubblica. Da tempo osservo attentamente la prima pagina e forse solo ora capisco perché quel giornale sta portando avanti, in questi giorni, una battaglia in favore del diritto di morire come e quando si vuole, preferibilmente al più presto. Non vedo infatti che cosa ci sia di bello nel vivere se la vita è quella descritta da questo grande quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Nei titoli della prima pagina del 5 gennaio (lasciando perdere la guerra a Gaza, argomento sul quale c’è poco da essere ottimisti) emergono in bella evidenza i seguenti sostantivi o aggettivi e/o le seguenti frasi: «incubo», «danni della nicotina», «sotto inchiesta», «brutto colpo all’immagine», «il vento della recessione», «il Pd si spacca», «tragedia», «a Milano ombra di tangenti», «quei criminali alla Sapienza». Il giorno prima, 4 gennaio, i titoli della prima erano questi: «Sterlina, la moneta regina si scopre povera»; «La guerra e l’etica della morte e della vita»; «Boom del deficit», «Il Pd: conti truccati». Per respirare un po’ ho aperto a caso nella sezione sport. Titolo di apertura sulla «crisi» che «cambia la MotoGp», a fianco un tragico suicidio di un ex ciclista.
D’altra parte anche lo sport non è più quello di una volta, c’è il doping, e vogliamo parlare del caro biglietti e delle partite truccate? Meno male che la pagina accanto, la copertina della cronaca di Milano, sollevava un po’ con i seguenti titoli: «Mappa dei veleni, ecco i primi soldi per le bonifiche»; «Là dove c’era l’industria resta la paura della morte»; «Corteo anti-Israele, è polemica»; «Chi ha ucciso la libreria del giallo»; «Un 2008 chiuso in recessione e per gli operatori non è finita».
Mamma mia. Mi rendo conto che non possiamo descrivere la normalità della vita (anche se sogno articoli tipo: il signor Mario Rossi ieri mattina si è alzato, è andato a lavorare, ha pranzato, cenato ed è andato a dormire; anche i figli tutto bene); ma mi domando se il mondo è davvero così brutto come lo dipingiamo noi giornalisti.
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