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« Torna agli articoli di Monica Mondo
La vicenda dei minatori cileni ha molto da insegnare. Quegli uomini hanno dimostrato una tenuta fuori dal comune, coraggio, generosità, perfino una dose di incredibile sprezzatura. Potevano maledire, incolpare, commiserare; era quasi ovvio che potessero litigare per un boccone di tonno, per uscire prima, semplicemente per dar sfogo alla paura e alla rabbia.
Ci siamo abituati a risse invereconde tra i reclusi in Case e Isole del reality show, e non si trattava che di spettacoli e giochi. I minatori di San José non hanno perso la testa, hanno collaborato e lavorato, sopportato disagi, buio, isolamento e angoscia, con docilità e fermezza.
Da dove viene quest’animo saldo, questa semplice e tenace fiducia negli uomini che li ha sorretti? La speranza per noi è troppe volte un oscuro affidamento al fato, uno “speriamo bene” scaramantico, per allontanare i cattivi pensieri. La speranza non esiste se non fonda su una certezza.
«Laggiù ho litigato con Dio e col diavolo. Hanno litigato per avermi. Dio ha vinto, io ho preso la sua mano, la migliore. Non ha mai vacillato la mia certezza che Dio mi avrebbe tirato fuori».
Una frase che sembra saltar fuori dalle pagine di Lewis, o di Bernanos, ed è di uno sconosciuto lavoratore del Cile profondo, che non conosce filosofia e letteratura.
Così Mario Sepulveda, il più tosto, quello che teneva i contatti con la terra di sopra, e forse col Cielo. Quello che, si è capito, tutti quanti hanno riconosciuto come guida autorevole e capace di confortare, organizzare, dare la carica. Un testimone, che sapeva dare certezza, perché lo sappiamo, abbiamo bisogno sempre, ma qualche volta di più, di una mano che ci tiene per mano, una guida che ci aiuta a brancolare nel buio.
Non conta avere una fede o no, le sue parole sono un pungolo per tutti e per ciascuno. Perché è di tutti la lotta col diavolo, la possibilità di dire sì o no a Dio, e fondare su di Lui la nostra speranza.
I minatori cileni potevano contare su un popolo: i familiari, certo, ma di più, la gente, quella che viene evocata di solito come carne anonima da sondaggi. “La gente pensa”, “la gente dice”. La gente prega, spera, si commuove e lavora con te. Un popolo è così, una comunità è così, non si distrae, non ti corre accanto distratta e indifferente, ti si fa intorno, si china su quel buco interminabile perché tu sappia che ti si vuol bene. Riesce a contagiare perfino i politici, dimentichi delle campagne elettorali e per poco forse, ma con sincerità, felici di sventolare la bandiera di una patria che ha fatto di tutto per salvare i suoi figli.
Non è scontato. In Cina ogni anno muoiono decine e decine di minatori inghiottiti dalla terra, e nessuno se ne occupa, nessuno lo sa. Anche qui, un popolo trova nelle sue radici l’unione e la coscienza di una diversità. Possiamo storcere il naso per la loro fede semplice e venata di superstiziosi riti, ma quello è un popolo cristiano.
E infine: suona fuori luogo, questa volta, l’ennesima lamentazione sui media che rincorrono l’emozione in diretta, che piantano tende e telecamere per aspettare che l’evento si compia. Ci si sono allenati i commentatori più autorevoli, nello sdegno snobistico per la tv che scava tra storie volti lacrime. Ma diamine, queste sono facce e pianti e sorrisi veri.
Tutto il mondo voleva sapere, voleva vedere, essere lì. Ci siamo sentiti tutti padri, madri, sorelle e figli di quegli uomini. Volevamo vederli uscire uno ad uno, conoscerli. Senza dibattiti, senza analisi. Lasciarci commuovere. Muovere la nostra testa e il cuore, per una volta, alla grandezza degli uomini, che sa stupire.
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