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« Torna agli articoli di Paolo Lambruschi
Abbiamo scalato rapidamente le classifiche e in pochi anni siamo arrivati al terzo posto nella graduatoria mondiale del gioco d’azzardo. Frutto di una politica bipartisan di delocalizzazione.
La Penisola, grazie all’anomalo monopolio statale del gioco, è passata dal prelevare molto a pochi al prendere poco a molti, portando i piccoli casinò sotto casa o addirittura nei salotti. Ecco allora la trasformazione epocale: da 10 anni le macchinette mangiasoldi del videopoker nei bar, i Gratta e vinci, il superenalotto, le sale Bingo, la moltiplicazione dei punti per le scommesse sportive, addirittura le scommesse sul televisore di casa via satellite o decoder fino a quelle sui computer con i casinò online. Si è passati da tre occasioni autorizzate dei primi anni 90 (totocalcio, lotto, ippica) alle sedici del 2006. Dal 1997 ogni Finanziaria ha ampliato le proposte. L’idea di fondo è che le maggiori entrate del gioco d’azzardo vadano a sanare il nostro deficit. Ma non è più così.
Dopo il boom di entrate dei primi 5 anni, dal 2002 la bolla è andata sgonfiandosi. Aumenta sì il fatturato, in piena espansione, ma la tendenza per le entrate dell’erario vira verso il basso. Perché le vincite vanno sempre aumentate e oggi la torta per i giocatori è al 68%. Così, a fronte di un aumento di 12 miliardi di euro dal 2002 al 2006, le entrate dello Stato sono diminuite progressivamente da 7,3 a 6,7 miliardi. Non funziona neppure la proposta di impiegare una parte delle entrate per fare informazione e prevenzione: con i soldi a bilancio a ciascuna scuola superiore toccherebbero 15 euro. In compenso l’aumento delle occasioni di gioco lascia sul terreno pesanti costi sociali. I giocatori patologici in Italia sono infatti stimati in 700mila e il nostro sistema sanitario non è preparato ad aiutarli. La denuncia arriva da Torino, dove ieri il Gruppo Abele, insieme ai maggiori esperti italiani, ha rilanciato l’allarme gambling. Il gioco è la prima causa nazionale di indebitamento che spinge a rivolgersi agli usurai. Senza contare i suicidi di chi finisce sul lastrico. «Mancano strutture dove curarsi – sostiene Riccardo Zerbetto, presidente di Alea, associazione che studia il gioco problematico – le famiglie dei giocatori compulsivi, sfibrate non solo economicamente, si rivolgono ancora a parroci e medici di base. Solo a gennaio sono stati definiti i livelli di cura per paziente, in modo da determinare i costi di cura per le regioni. Le richieste, dove ci sono servizi specialistici regionali, sono invece in aumento. Senza contare che anche i parenti hanno bisogno di cure psicologiche. Senza contare che il giocatore non va ai Sert con drogati e alcolisti». Ma quando uno è vittima del gioco patologico? Nel Belpaese non ci sono ancora definizioni scientifiche del problema, dicono gli esperti, per una diagnosi ci si deve rifare alla letteratura internazionale. Da un mese, intanto, il Gruppo Abele sta effettuando un ricognizione dei servizi esistenti tra pubblico e privato sociale per stilare una prima mappa del fenomeno. Dalle cifre sappiamo comunque che l’Italia è il terzo paese al mondo per volume complessivo di spesa per gioco d’azzardo, dopo Giappone e Regno Unito, ma il primo per la spesa pro capite. Nel 2007 gli italiani hanno infatti giocato 42 miliardi di euro (2% del Pil) e 10 milioni di famiglie hanno tentato la sorte. Prevalgono i ceti meno abbienti al Sud. In Campania, Abruzzo, Sicilia e Sardegna i nuclei in media spendono nel gioco il 6,5% del bilancio famigliare. Giocano regolarmente due terzi dei disoccupati, la metà degli indigenti. Tutti disperatamente attratti dal mito della giocata vincente. La spesa media per nucleo è 2600 euro all’anno. E così l’industria del gioco è diventata per fatturato la quinta in Italia, dopo Fiat, Telecom, Enel e Ifim.
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