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« Torna agli articoli di Riccardo Cascioli
Un documento straordinariamente moderno e controcorrente, rispetto sia alla mentalità “mondana” sia a tanto “progressismo” cattolico. Stiamo parlando della nuova enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate, la prima enciclica sociale di questo pontificato, che originariamente doveva uscire in occasione del 40mo anniversario della Populorum Progressio di Paolo VI (1967).
Impossibile cogliere in poche righe tutta la ricchezza e di diversi punti toccati dall’enciclica, ma ci preme metterne in rilievo alcuni aspetti fondamentali.
1. La base di tutto è la “questione antropologica”. E’ qui che si gioca la sfida principale al mondo moderno che i sociologi definiscono post-cristiano. Contro un pensiero dominante che ha una concezione essenzialmente negativa della presenza umana sulla terra – di cui il controllo delle nascite e la deriva eugenetica sono soltanto una esplicitazione -, il Papa rimette l’uomo al centro della Creazione. L’uomo immagine e somiglianza di Dio, che proprio dal riconoscimento di questa “vocazione” trae la sua dignità, nonché il compito e la responsabilità sociale. E’ questo un punto decisivo perché, scrive il Papa, “l’umanesimo senza Dio è un umanesimo disumano” e non c’è dubbio che oggi l’ideologia umanitaria, incarnata ad esempio dalle agenzie dell’ONU e da tanti organismi umanitari internazionali, sia responsabile di tanti crimini contro l’umanità. Come dimenticare infatti che i 50 milioni di aborti che si consumano ogni anno nel mondo sono attivamente promossi e finanziati da agenzie umanitarie?
2. Proprio per questa visione antropologica, l’enciclica pone il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa – strettamente connessi alla dignità dell’uomo – come fondamento di un vero sviluppo integrale della persona e dei popoli. Ogni politica di sviluppo che prescinda da questo riconoscimento in un modo o nell’altro provoca disastri e fallimenti. Non può non venire in mente la Cina dove la crescita economica si accompagna a una sistematica violazione dei diritti umani con gravi conseguenze sociali e politiche, dallo squilibrio demografico al preoccupante inquinamento.
3. Fondamentale l’affronto della questione demografica. Il punto centrale, coerente con quanto sopra, è che “l’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo”. Il che ha due implicazioni:
A) per i paesi poveri, si è dimostrato “scorretto dal punto di vista economico” “considerare l’aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo”. In effetti negli ultimi decenni tutti i Paesi del mondo – salvo rarissime eccezioni – hanno sperimentato un calo drastico delle nascite. Ma nessun paese è uscito dalla povertà e dal sottosviluppo grazie a queste politiche. Al contrario sono state dirottate sul controllo delle nascite importanti risorse necessarie per promuovere veri progetti di sviluppo. Inoltre l’applicazione selvaggia di tali politiche – vedi Cina, India e altri Paesi asiatici – ha provocato grossi squilibri sociali, di cui la mancanza all’appello di cento milioni di femmine è soltanto l’aspetto più eclatante.
B) Per i paesi sviluppati, pone le radici dell’attuale crisi economica proprio nel drammatico calo delle nascite. E’ un’analisi originale – ignorata dai cosiddetti esperti – che offre un orizzonte e una prospettiva nuova alla crisi. Non si tratta di una congiuntura negativa legata semplicemente a errate politiche economiche e finanziarie – che pure ci sono state – ma di una crisi strutturale dovuta a oltre 40 anni di tassi di fertilità (per i paesi sviluppati) al di sotto del livello di sostituzione. Se negli ultimi anni abbiamo capito quanto questo ci sta costando - e ci costerà ancora di più in futuro – per le pensioni, ebbene questo è soltanto un aspetto di una crisi ben più ampia destinata ad aggravarsi nei prossimi anni e a cambiare profondamente la nostra vita. Per questo la risposta non può essere soltanto “tecnica”. Le comunque necessarie misure economiche e finanziarie devono accompagnarsi a una vera rivoluzione culturale, fondata sull’ apertura alla vita.
4. L’enciclica sostituisce l’abusato termine “solidarietà” con il concetto di “fraternità”. E’ un’importante novità che fa i conti con l’ambiguità della “solidarietà” che – anche in vaste aree del mondo cattolico – si accompagna a una visione sentimentale e ad una riduzione della carità a filantropia. E’ perciò diventata parte di quell’ “umanesimo senza Dio” che il Papa denuncia come disumano. L’introduzione del concetto di fraternità rimanda direttamente alla questione antropologica richiamata all’inizio: mentre la solidarietà mette l’accento sul fare dell’uomo verso gli altri uomini, la fraternità mette l’accento su ciò che riceviamo, perché è il riconoscimento di un unico Padre (senza il quale non potremmo considerarci fratelli).
5. Coerente anche l’affronto del problema ambientale, dove l’enciclica esplicita e declina nella situazione attuale ciò che è già patrimonio della dottrina sociale della Chiesa e che si può riassumere nella frase: la natura è per l’uomo e l’uomo è per Dio. “Se tale visione viene meno - dice il Papa – l’uomo finisce per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne”. In questo modo fotografa la situazione schizofrenica del mondo occidentale secolarizzato, dove l’ambientalismo e il disprezzo dell’ambiente (pensiamo solo alle tante fabbriche che aggirano le leggi riversando in aria e nelle acque sostanze tossiche) sono in fondo due facce della stessa medaglia. Il Papa rilancia dunque “l’ecologia umana” che consiste principalmente nella valorizzazione dell’uomo, tale che la Chiesa, in tema ambientale, ha come primo compito di “proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso”. “Quando l’ecologia umana – dice l’enciclica – è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio”.
6. Ci si permetta in conclusione di mettere in rilievo due conseguenze dell’enciclica che confortano la battaglia culturale – anche intraecclesiale - che SVIPOP e il CESPAS conducono da anni:
A. Un importante aspetto dell’enciclica è che è stato respinto l’assalto e le forti pressioni di quanti vogliono che pilastro fondamentale della Dottrina sociale della Chiesa diventi il concetto di “sviluppo sostenibile”. Lo “sviluppo sostenibile” non è conciliabile con la dottrina della Chiesa perché è parte integrante dell’ “umanesimo senza Dio”. Dobbiamo ricordare che il concetto di sviluppo sostenibile – codificato nel Rapporto della Commissione Brundtland (1987) e diventato la base delle politiche globali su sviluppo e ambiente – è l’espressione compiuta di una concezione negativa dell’uomo. In particolare la Commissione Brundtland identifica nella popolazione – dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo - un fattore negativo per lo sviluppo e l’ambiente. Ecco perché a livello globale si investono miliardi di dollari per il controllo delle nascite nei Paesi poveri (aspetto quantitativo) e per frenare lo sviluppo dei paesi ricchi (aspetto qualitativo). Malgrado ciò importanti settori della Chiesa spingono per l’adozione di questo concetto: sono in particolare le conferenze episcopali europee – Germania in testa – e gli organismi ecumenici, dove sono alcune Chiese protestanti a dettare la linea. Ma anche in Italia ci sono associazioni e organizzazioni non governative dichiaratamente cattoliche che premono per introdurre “l’educazione alla sostenibilità perfino nei seminari”, ed è triste notare che tali idee godono di un certo favore in alcuni settori dell’episcopato. E’ invece consolante rilevare che a Roma c’è chi non cede al conformismo dominante.
B. Allo stesso modo viene respinto in modo netto il concetto di “decrescita”, felice o serena che sia, o di uscita dall’economia. Anche queste idee trovano incredibilmente accoglienza in alcuni settori della Chiesa. Ebbene il Papa parla chiaro: Lo sviluppo – inteso in senso integrale - è la nostra vocazione di uomini. E a questo dobbiamo tendere. La decrescita non è un valore e neanche l’uscita dall’economia.
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