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« Torna agli articoli di Stefano
In ottobre i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per esprimere il loro voto sulla riforma della Costituzione italiana voluta dal governo Renzi. La revisione costituzionale è stata approvata dal Parlamento, ma non con l'ampia maggioranza richiesta per i mutamenti costituzionali, per cui si è reso necessario il passaggio referendario, dato che, come afferma il "sacro testo" della nostra Repubblica; "Il potere appartiene al popolo".
Motivazioni molto diverse tra loro guideranno gli italiani al voto. Per esempio lo schieramento del "No" alla riforma comprende esponenti della sinistra radicale e laicista, del movimento del Family Day, comunisti non modernisti, Movimento 5 Stelle, Lega, studiosi e politici di matrice dossettiana, un certo mondo del cattolicesimo tradizionalista e così via. La stessa cosa potrebbe dirsi per il fronte contrapposto del "Si".
Ecco perché può essere utile, accanto alle motivazioni più strettamente politiche e di valutazione dell'operato di questo governo che molti attendono al varco del referendum, precisare e recuperare alcune motivazioni più forti e specifiche, valutando la riforma alla luce della Dottrina sociale della Chiesa.
LA COSTITUZIONE COME PROBLEMA
La prima cosa da considerare è il significato della Costituzione. Il cattolico non è un "patriota della Costituzione". Egli sa infatti che a fondamento della Costituzione c'è ben altro e di più della Costituzione, qualcosa a partire da cui valutare e giudicare la stessa Costituzione. Parlo della legge naturale e divina. Quindi la Carta costituzionale non è l'ultima istanza normativa della vita comunitaria. Sarebbe così per l'ideologia del costituzionalismo, ma il cattolico non può essere costituzionalista.
Alla luce di quanto fonda e supera la Costituzione, si può dire che la nostra Costituzione abbia sia limiti che meriti. Per esempio gravi limiti sono la mancanza di riferimento a Dio, l'adozione del principio assoluto di autodeterminazione soggettiva, la dipendenza dalla visione liberale dei diritti umani come diritti soggettivi, la scarsa attenzione per i corpi intermedi; un merito è la definizione di famiglia come società naturale fondato sul matrimonio. Il problema allora non è né difenderla ad oltranza né volerla cambiare in modo frettoloso e pasticciato. Si tratta piuttosto di vedere se i cambiamenti previsti la migliorerebbero o meno, alla luce di quel qualcosa che le sta sopra e che per noi risponde all'espressione "Dottrina sociale della Chiesa".
IL QUADRO DELLA RIFORMA
La riforma costituzionale su cui andremo a votare prevede la trasformazione del Senato, che perderà la funzione politica di dare la fiducia al governo e quella legislativa di fare le leggi. Si occuperà di raccordo con le regioni e avrà un numero minore di senatori, eletti in seconda istanza tra i consiglieri regionali e i sindaci. Il Senato continuerà però a votare per l'elezione del Presidente della Repubblica e per i componenti della Corte Costituzionale. Chi avrà in mano la Camera avrà in mano il Paese, perché sarà la sola assemblea parlamentare ad avere un ruolo politico e legislativo.
Inoltre la Camera aumenterà il proprio peso nella elezione delle più alte cariche istituzionali come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, visto che il numero dei senatori diminuisce rispetto a quello dei deputati. La domanda quindi è: chi avrà in mano la Camera? Per saperlo bisogna analizzare la nuova legge elettorale, l'Italicum, anche se non rientra nelle questioni della riforma costituzionale strettamente intese.
Questa prevede elezioni a due turni su liste parzialmente bloccate. Il partito che al primo turno supera il 40 per cento dei voti ottiene un cospicuo premio di maggioranza che gli permette di avere in mano la Camera prendendo da solo il 54% dei seggi. Se ciò non avviene, si va al secondo turno, ove il partito che prende il maggior numero di voti - senza soglia, ossia che siano pochi o tanti non importa - prende il premio di maggioranza e ha in mano la Camera col 54% dei seggi, ossia l'attività legislativa e la nomina delle massime istituzioni. Il combinato tra nuova legge elettorale e sostanziale abolizione del Senato crea una situazione sbilanciata a favore di uno strapotere dell'esecutivo e, con molte probabilità, di un solo partito (e di un solo uomo?).
LE ISTITUZIONI E IL BENE COMUNE
Non sono le istituzioni a creare il bene comune, perché le comunità familiare, sociale e politica vengono prima dello Stato. L'equilibrio tra le istituzioni è uno strumento affinché il bene comune sia partecipato. Esso, infatti, deve venire dal basso, al di fuori di ogni centralismo. Il bene comune non può essere imposto o pianificato dall'alto delle istituzioni statali, men che meno dall'alto del potere esecutivo. Ogni famiglia, ogni impresa, ogni associazione, ogni comunità locale, ogni regione ha il proprio bene comune da raggiungere. Tutti devono dare il proprio apporto al bene comune. Per questo la partecipazione è un dovere ed anche un diritto: il diritto di partecipare alla costruzione del bene comune. Certo si tratta di una partecipazione eticamente qualificata per un bene comune che rispetti il naturale bene della persona e della comunità. Ma l'etica del bene comune non deve essere fatta dallo Stato, essa è prima di tutto il bene della comunità politica a cui lo Stato è a servizio.
Lo Stato deve seguire un'etica che non è lui a stabilire, deve perseguire il bene della comunità politica, articolata nei suoi corpi intermedi. Ora, un accentramento di potere nel governo e, cosa ancora peggiore, in un partito si oppone a questa visione analogica del bene comune. Assomiglia, piuttosto a quella di uno Stato etico, ossia di uno Stato non che si sottopone all'etica, ma che pensa di stabilirla lui.
L'accentramento istituzionale nel governo che la riforma prefigura produrrà certamente maggiore decisionismo, ma con grande svantaggio della partecipazione degli organismi che compongono la società politica nazionale al bene comune. Non si rivendica qui una partecipazione per la partecipazione, quanto una partecipazione solidale e sussidiaria (su cui tornerò tra poco) eticamente qualificata.
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ
Il pericolo di accentramento di funzioni politiche essenziali eccessive nel governo è ulteriormente aggravato dal fatto che la riforma costituzionale prevede anche un riaccentramento di molte funzioni amministrative dalle regioni al governo centrale. Quel partito che, almeno in linea realisticamente teorica, potrebbe avere in mano la Camera, avrebbe titolarità su molte funzioni che oggi sono articolate nel territorio nazionale a livello regionale. Inoltre, invocando la clausola dell'interesse nazionale, il governo potrebbe accentrare in futuro altre funzioni, togliendole alle regioni anche virtuose.
Poiché rimane la distinzione tra regioni ordinarie e a statuto speciale, potrà darsi che il governo avochi a sé la competenza in settori importanti - come per esempio la sanità - da regioni che stanno operando bene e lasciando invece tali competenze a regioni a statuto speciale che operano male.
Nella precedente riforma costituzionale si era verificata una "devolution" dallo Stato alle regioni. Ora si vuole percorrere la strada opposta. In ambedue i casi, però, non si rispetta il metodo richiesto dal principio di sussidiarietà. [...]
Questo vorrebbe che si partisse dal basso e si chiarisse cosa possono fare i diversi livelli amministrativi del territorio e le diverse agenzie sociali, dato che la sussidiarietà non è solo verticale ma anche orizzontale e le due dimensioni vanno combinate insieme.
Il livello superiore deve fare quanto il livello inferiore non riesce a fare. Se non riesce a farlo perché momentaneamente impedito dalle difficoltà, il livello superiore deve agire con spirito di supplenza e con un aiuto sussidiario per rimetterlo in grado di fare da sé, senza sostituirsi ad esso. Nel caso invece non sia in grado di farlo perché non gli compete, allora il livello superiore deve assumere questa funzione in proprio. Questo metodo non è stato adoperato nella riforma costituzionale cosiddetta "Boschi-Renzi": si pensa solo a riaccentrare, compresi ambiti in cui ciò potrà produrre maggiore corruzione e aumento di costi, senza peraltro correggere in modo sussidiario altra corruzione ed altri sprechi.
IL NUOVO GOVERNO ETICO
Un governo forte costituito da un solo partito e guidato da un leader carismatico con in mano l'unica Camera parlamentare potrà certo far approvare le leggi in fretta e le riforme in quattro e quattr'otto. Ciò comporterà però che i poteri supernazionali e transnazionali potranno agire su di lui più agevolmente per farlo operare secondo i loro interessi. Comporterà anche che un programma di distruzione della famiglia, della procreazione, dell'educazione potrà essere approvato in modo veloce ed indolore. Non possiamo dimenticare il modo con cui il governo attualmente in carica ha fatto passare la legge Cirinnà: con due voti di fiducia che hanno "crioconservato" il Parlamento.
Non dimentichiamo che l'unico intoppo la prassi governativa l'ha trovato al Senato. Nel contesto della riforma costituzionale prefigurata, quanto manca al disegno laicista di creare una nuova morale e un nuovo uomo - ossia eutanasia, utero in affitto, droga libera, prostituzione legalizzata, fine dell'obiezione di coscienza in tutti i campi - si realizzerà con una velocità esponenzialmente maggiore a quella dell'approvazione della legge Cirinnà.
Quello di bene comune è un concetto morale; presuppone che il bene sia indipendente e precedente le leggi e le politiche. Solo allora sarà un bene "in comune", altrimenti sarà un bene di parte. L'equilibrio tra le istituzioni serve a favorire questo principio. La riforma Boschi-Renzi consegna il bene in mano ad una Camera, ad un potere, quello esecutivo, ad un partito e ad un uomo. Una corretta impostazione istituzionale non è sufficiente per avere il bene comune, ma è necessaria.
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