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L'espressione "reddito di cittadinanza" non c'era nel programma del Movimento 5 Stelle. In esso si parlava del problema all'interno della riforma del collocamento. Tuttavia, come si è appreso, dopo le elezioni molti cittadini si sono recati ai CAF chiedendo i (fantomatici) moduli per la richiesta del reddito di cittadinanza. Non è certo cosa i 5 Stelle intendessero con questa espressione, sono invece certe due cose: che molti elettori l'hanno recepita nel significato di un qualche "sussidio" che lo Stato avrebbe concesso e che i Grillini in campagna elettorale non hanno fatto molto per spiegare che così non era, anzi.
Per capire la questione può essere utile considerare cosa pensi la Dottrina sociale della Chiesa del reddito di cittadinanza. So bene che questo provvedimento può essere articolato in molti modi, ma in attesa di conoscere come sarà articolato (e se sarà articolato) nel caso italiano, vale la pena considerarlo in generale, come intervento economico dello Stato a sostenere direttamente con qualche forma di contributo fasce di cittadini in difficoltà per la crisi economica.
Il reddito di cittadinanza, come risulta anche dall'espressione, si fonda sul rapporto tra lo Stato da un lato e i cittadini dall'altro. Questa concezione ha origini lontane ma è anche tipica della mentalità del Movimento 5 Stelle, nella cui cultura di riferimento non esiste il concetto né di società naturali né di corpi intermedi. E' la concezione derivata dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese con cui, come si sa, la Dottrina sociale della Chiesa non va molto d'accordo. Il rapporto tra Stato e cittadini così inteso è come un rapporto tra due privati e a questo rapporto tra due privati si dà il nome di "interesse pubblico" che però non ha nulla a che fare con il vero bene comune. Infatti il reddito di cittadinanza si fonda su una sovranità dello Stato che dall'alto della sua assolutezza eroga contributi per singoli cittadini isolati e anonimi, scavalcando l'intera società civile.
Siamo quindi sempre all'interno della concezione moderna dello Stato accentrato ed assoluto, che nella forma di questi interventi di "provvidenza" continua a conservare la propria immagine di un "Dio in terra". Si tratterebbe di una forma di Stato assistenziale (Welfare State) come ultima immagine secolarizzata del Leviatano: lo Stato come Dio, uomo, animale e macchina nello stesso tempo.
La Dottrina sociale della Chiesa non ha mai accettato questa visione delle cose, perché ritiene, più realisticamente, che l'uomo, prima di essere cittadino (o prima di essere borghese o proletario) sia uomo e, quindi, che viva originariamente dentro una società naturale come la famiglia e dentro le aggregazioni della società civile, di carattere locale o elettivo, a cui spetta per prime il diritto/dovere della solidarietà.
Il reddito di cittadinanza confligge quindi con il principio ordinativo della sussidiarietà, fondamentale per la Dottrina sociale della Chiesa. Lo Stato non deve intervenire direttamente nei confronti di cittadini astratti ridotti ad unità numeriche o a codici su uno stampato, ma deve semmai far sì che ad agire siano i soggetti naturali e civici più vicini alla persona. Purtroppo succede invece che il Movimento 5 Stelle abbia un programma distruttivo della famiglia naturale senza affidarle quindi nessun compito di ammortizzatore sociale e di prima solidarietà rispetto per esempio alla disoccupazione, e poi faccia intervenire lo Stato con interventi di sussidio dati a cittadini intesi nella concezione rousseauiana di monadi o di unità numeriche. In questo modo il cittadino in difficoltà viene attaccato alla "flebo" dello Stato, lo si fa dipendere dall'apparato, dalle concessioni e non gli si permette di rimettersi in moto. Privata dei legami con la società naturale della famiglia e con i corpi intermedi, la persona finisce per perdere anche la propria libertà e diventare oggetto di erogazioni dall'alto che verranno fatte comunque pagare in altro modo agli interessati.
Già oggi, come sempre del resto, il primo soggetto impegnato nell'ammortizzare i costi sociali della disoccupazione è la famiglia e i gruppi di famiglie. Allora i soldi del reddito di cittadinanza vengano utilizzati per sgravare le famiglie con figli e metterle in grado di esercitare questa loro solidarietà diretta. Quelle risorse vengano destinate a favorire forme di start-up professionali per giovani come lotta alla disoccupazione non sussidiata ma sussidiaria. Si sa che nonostante la riforma del collocamento, le assunzioni non passano per gli uffici a ciò preposti. La cosa vera da fare è favorire la ripresa economica detassando le imprese.
Oggi molti chiedono che lo Stato diventi "minimo", volendo in realtà che diventi "debole" anche se poi in realtà rimane "grasso". La Dottrina sociale della Chiesa vuole che lo Stato stia al suo posto e non sia sempre e in tutto soggetto diretto, ma diventi soggetto indiretto, che lascia fare prima di fare e che permetta alle società più vicine alla persona di esprimere i propri compiti naturali. L'assistenzialismo di principio del reddito di cittadinanza non rientra in questa visione.
Nota di BastaBugie: in Italia si parla molto del reddito di cittadinanza proposto dal Movimento Cinque Stelle che, secondo molti osservatori, è stata la carta vincente con cui i grillini hanno stravinto al Sud. Ma che cos'è? Come funziona? Chi ne ha diritto? Qui di seguito pubblichiamo un articolo apparso sul Messaggero il 24 febbraio (quindi prima del voto) del professore Luca Ricolfi in cui si risponde alle domande sopraelencate.
Tasse, sicurezza e occupazione sono gli unici temi che sono stati centrali in tutte le campagne elettorali della seconda Repubblica, compresa questa. Oggi però si è aggiunto un quarto tema, assolutamente centrale e senza precedenti: il reddito minimo.
Con nomi e forme diverse lo hanno proposto un po' tutti. Il Pd parla di reddito di inclusione, il Centro-destra di reddito di dignità, i Cinque stelle di reddito di cittadinanza (una sorta di fake word, o parola usata a sproposito, visto che il reddito di cittadinanza è tutt'altra cosa). I costi sono ragionevoli (pochi miliardi) nel caso della proposta del Pd, alti ma indeterminati (per mancanza di dettagli) nel caso del Centro-destra, certamente molto elevati (fra i 15 e i 30 miliardi) nel caso dei Cinque Stelle.
Fra tutte le forze politiche, quella che più risolutamente e da più tempo punta sul reddito minimo, e da ben cinque anni ha depositato un disegno di legge, è il Movimento Cinque Stelle. L'idea è di garantire a chiunque, indipendentemente dal fatto di lavorare o meno, il raggiungimento di un reddito familiare pari alla soglia di povertà relativa, che attualmente in Italia è di oltre 1000 euro per una famiglia di 2 persone e di 1500 euro per una di 3 persone. La misura, fondamentalmente, riguarda tre categorie di soggetti; chi lavora e guadagna meno della soglia di povertà; chi è disoccupato e cerca un lavoro; chi si trova nella condizione di pensionato, di casalinga o di inoccupato con un reddito familiare inferiore alla soglia. In sostanza ne sono esclusi soltanto i minorenni, e chi ha un reddito dichiarato superiore alla soglia di povertà. Detta così, l'idea è affascinante. Ma come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli (e nelle conseguenze).
Vediamo. Primo dettaglio, il costo: comunque lo si computi (le stime oscillano fra 15 e 30 miliardi, ma se si sta alla lettera del disegno di legge la seconda cifra è la più verosimile), un costo annuo di una ventina di miliardi corrisponde a una manovra finanziaria permanente. E' come dire che, una volta impegnati questi soldi, null'altro si potrà fare: né abbassare le tasse, né incentivare l'occupazione e gli investimenti, per non parlare delle altre innumerevoli promesse dei Cinque Stelle stessi.
Secondo dettaglio: il disincentivo a lavorare. Il disegno di legge sul reddito di cittadinanza ignora il fatto che, così configurato, il reddito minimo renderebbe non conveniente lavorare per ben 9 milioni di italiani. Perché mai un occupato a tempo parziale a 500 euro al mese dovrebbe continuare a lavorare se può guadagnarne quasi 700 non facendo nulla? Certo, si può obiettare che, in realtà, il diritto al reddito di cittadinanza si perde se non si rispettano determinati obblighi (come la ricerca di un lavoro, la formazione, la disponibilità a lavori socialmente utili) e, soprattutto, se si rifiutano le offerte di lavoro. C'è un piccolo dettaglio, però: il percettore di un reddito di cittadinanza può rifiutare ben 3 offerte di lavoro, e arrivato alla quarta può eccepire che l'offerta non è "congrua", o che una delle precedenti offerte non lo era, e quindi non va inclusa nel conteggio. Ma che significa congrua? Lo specifica nei minimi dettagli il comma 2 dell'articolo 12 del Disegno di legge dei Cinque Stelle. Un'offerta di lavoro è considerata congrua se (cito solo alcune delle condizioni); "è attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario"; "la retribuzione oraria è maggiore o eguale all'80% di quella riferita alle mansioni di provenienza"; il posto di lavoro è raggiungibile in meno di un'ora e 20 minuti con i mezzi pubblici. Tutte condizioni che devono essere soddisfatte congiuntamente, altrimenti l'offerta non è congrua. Non ci vuole moltissima fantasia ad immaginare le conseguenze. L'enorme burocrazia di funzionari pubblici pagati per gestire questi 9 milioni di beneficiari non riuscirà ad "accompagnare" al lavoro, al servizio civile, o nei corsi di formazione che una minima parte di essi. A chiunque non voglia accettare un'offerta di lavoro perché preferisce percepire il sussidio senza lavorare (o lavorando in nero) basterà rifiutarla (ha diritto a rifiutarne ben tre senza alcuna giustificazione). Se poi fosse così sfortunato da riceverne ben quattro, e anche la quarta non gli andasse bene, gli basterà considerarla "non attinente alle sue propensioni ed interessi", che evidentemente nessuno, tantomeno un giudice del Tar, potrà pretendere di conoscere meglio del diretto interessato (l'unico freno all'abuso di questa possibilità di rifiuto è posto dal comma 2, che comunque scatta solo dopo un anno e nel caso di rifiuto di tutte le offerte precedentemente ricevute).
In breve: l'effetto economico più macroscopico del reddito minimo in formato Cinque Stelle sarebbe di ridurre ulteriormente l'offerta di lavoro, che in Italia è già patologicamente bassa rispetto a quella delle altre economie avanzate. Ma il dettaglio più inquietante del reddito minimo sta nella sua iniquità. Essendo basato sul reddito nominale, anziché sul potere di acquisto, esso non potrà che creare nuove diseguaglianze, come se non ne avessimo già abbastanza. Una misura equa, come il "minimo vitale" proposto dall'Istituto Bruno Leoni, dovrebbe basarsi sul reddito in termini reali e non sul reddito monetario. Stanti le enormi differenze nel livello dei prezzi, analiticamente documentate dall'Istat, mille euro di un operaio che vive a Milano valgono poco più della metà di quel che valgono per un manovale che vive in un piccolo comune del Mezzogiorno. Ecco perché tutte le misure basate sul reddito nominale (anche quelle del Pd e del Centro-destra) sono intrinsecamente inique: rischiano di escludere dal beneficio molti veri poveri nelle regioni del centro-nord, e di sussidiare molti finti poveri in quelle del Mezzogiorno. Per non parlare di altri squilibri: l'iniezione nell'economia di 20 miliardi di sussidi all'anno sulla base del reddito nominale dichiarato è strutturalmente una misura pro-evasori, perché beneficerebbe chi guadagna abbastanza ma dichiara poco o nulla, e taglierebbe fuori chi guadagna poco ma dichiara tutto.
Si potrebbe obiettare, naturalmente, che il fascino del reddito minimo deriva anche dal fatto che la formazione di posti di lavoro è molto lenta, molti mestieri e molte occupazioni stanno sparendo, i robot e l'intelligenza artificiale stanno sostituendo gli uomini. In un mondo in cui, come aveva previsto Keynes fin dagli anni '20 del Novecento, il monte ore totale di una società tende a contrarsi, è logico che la maggioranza non lavori, e che sia la mamma-Stato a provvedere agli sfortunati (o ai fortunati?) che dal lavoro saranno esentati, che lo vogliano o non lo vogliano. Dopotutto, almeno in Italia, in parte è già così: la patologia di uno Stato che da sociale si fa assistenziale risale a circa mezzo secolo fa, quando per la prima volta venne denunciata vigorosamente da un manipolo di studiosi e di politici coraggiosi: Franco Reviglio, Giorgio Galli, Alessandra Nannei, Ugo La Malfa, autori di libri e analisi tanto memorabili quanto inascoltate.
A questa obiezione si possono, a mio parere, fornire due sole risposte. La prima è una domanda: è questo il tipo di mondo in cui vorremmo vivere? Davvero ci piacerebbe che il lavoro fosse il destino di una minoranza di super-efficienti, competitivi, stakanovisti cui spetta, attraverso la mano pubblica, mantenere tutti gli altri? La seconda risposta, invece, è una constatazione, che emerge dal confronto con gli altri paesi. Se guardiamo all'evoluzione del numero di posti di lavoro nelle società avanzate, scopriamo una cosa molto interessante, anche se leggermente frustrante per noi: dopo la crisi, e a dispetto della crisi, sono molti i paesi che hanno oggi un tasso di occupazione più alto di quello di dieci anni fa. Questo basta a mostrare che automazione, intelligenza artificiale, globalizzazione, delocalizzazioni non bastano a spegnere le energie di un paese vitale, che vuole continuare a crescere e prosperare. Certo, è possibile che fra dieci o venti anni l'Italia si ritrovi irrimediabilmente al di fuori dei sentieri della crescita e della modernizzazione, e che a un manipolo di produttori sia affidato il compito di mantenere una maggioranza di cittadini impoveriti e impotenti, in un paese che decresce e diventa sempre più marginale. Ma non raccontiamoci che è colpa del progresso, o che era destino, o che la responsabilità è dell'Europa, della signora Merkel o dell'austerità. Perché se a noi andrà così, e altri invece ne verranno fuori come già stanno facendo, è solo a noi stessi che dovremo chiedere: come mai, anziché reagire alla crisi, creando posti di lavoro veri, abbiamo preferito continuare, come facciamo da mezzo secolo, a puntare tutte le nostre carte sullo Stato assistenziale?
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