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« Torna agli articoli di Stefano
Per averci voluto ricordare sullo schermo la verità su Katyn, Mazzarotto ha già perso finora 150.000 euro, che per una casa di distribuzione piccola e indipendente sono una seria ipoteca. Negli Anni 50 non andò meglio al professor Vincenzo Maria Palmieri, direttore dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Napoli, uno dei 12 anatomopatologi che su mandato della Croce rossa internazionale esaminarono i cadaveri degli ufficiali polacchi dissepolti a Katyn nell’aprile 1943. A causa del suo referto inconfutabile - «il crimine fu commesso dai sovietici» - Palmieri venne fatto oggetto di un feroce linciaggio morale a opera dell’Unità diretta dall’ex partigiano Mario Alicata, deputato del Pci. Il braccio destro di Palmiro Togliatti arrivò a pretendere che il docente fosse privato della cattedra. Per cui oggi si stenta a credere che lo stesso giornale, lo scorso 13 febbraio, abbia potuto salutare l’uscita di Katyn sugli schermi con queste parole: «Vederlo, per chi si è riconosciuto nella storia del comunismo, è compiere un atto di giustizia». Pudicamente precedute da un’evasiva annotazione: «Molti lettori dell’Unità sanno bene di cosa stiamo parlando». Già.
Ha avuto solo rogne da questo film.
«No, anche un’emozione indescrivibile. È stato quando ho portato i rulli originali alla Award network per farli doppiare. Nel buio della sala di Cinecittà ho sentito Anna, Andrzej, Jerzy, Róza, Piotr, Agnieszka e tutti gli altri personaggi parlare per la prima volta in italiano. Ecco, hanno preso vita grazie a te, mi sono detto».
Da quanti anni fa il produttore?
«Da 15, con la Intelfilm. Il distributore solo da un paio, con la Movimento Film».
È ricco di famiglia?
«Magari. I Carlo Ponti e i Dino De Laurentiis sono scomparsi da un bel pezzo. Oggi il produttore è solo un normale professionista che riesce a mettere insieme finanziamenti privati e statali per realizzare un film. Io mi dedico in particolare al cinema di qualità».
Allora sarà figlio d’arte.
«Neppure. Sono nato nel 1965 a Treviso e ho vissuto a Venezia, Napoli e Roma, le città dove ha lavorato mio padre, funzionario della Bnl. Nella capitale ho frequentato il liceo classico Visconti e l’Accademia nazionale di arte drammatica Silvio D’Amico».
Nel 1986 recitava come attore in «Una domenica sì» con Elena Sofia Ricci e Nik Novecento. E vent’anni fa in «Tempo di uccidere» di Giuliano Montaldo. Poi ha deciso di passare dietro la macchina da presa. Perché?
«Perché non ero bravo. Me la sono sempre cavata meglio come organizzatore. Ho cominciato negli Anni 90 con un programma per Raitre. S’intitolava Ultimo minuto. Brevi filmati che ricostruivano casi veri, salvataggi d’emergenza, girati da Gabriele Muccino, che poi sarebbe diventato regista di successo. Ho lavorato anche per Format di Giovanni Minoli, da cui è venuta fuori Milena Gabanelli».
Insomma, non è un destrorso. E del resto la sua Intelfilm ha lavorato con i compagni Citto Maselli, Lina Wertmüller, Paolo Virzì, Daniele Vicari.
«Mi considero un moderato attento a far parlare le teste e non le ideologie».
Chiariamo subito: «Katyn» non va nei cinema perché è un film privo di appeal commerciale per il grande pubblico o perché lo stanno boicottando?
«Se il Corriere, pubblicato a Milano, scrive che questo è un film da vedere sull’attenti, ma i lettori non trovano un solo cinema di Milano dove lo si proietti, io dico che siamo di fronte a una censura culturale in piena regola. Questo è stato il piazzamento, come diciamo in gergo, nella prima settimana di Katyn. Appena 8 sale in tutta Italia, fra Roma, Torino, Firenze, Genova, Pesaro e Molfetta. Non riesco a farlo dare neppure nella mia città d’origine, Treviso: solo al cinema Manzoni di Paese, dal 21 aprile. E l’aspetto più surreale della vicenda è che sono sommerso da mail, lettere e telefonate d’ingiurie da parte di cittadini che mi definiscono comunista, fazioso, disonesto, incapace. Pensano che il censore sia io!».
Com’è potuto accadere?
«A decretare il successo di un film è il debutto nelle 12 città capozona: Roma, Milano, Torino, Genova, Padova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Catania, Cagliari, Ancona. I due terzi di esse a Katyn sono state precluse. Non solo: devi arrivare nelle sale più importanti, appena un centinaio su 4.000. Prenda Roma: sono Quattro Fontane, Mignon, Eden, Intrastevere e Fiamma. Ma a noi hanno aperto le porte unicamente Farnese, Madison e Nuovo Aquila. A Milano c’è voluto l’intervento di un’organizzazione culturale, Sentieri del cinema, per farci arrivare dal 3 aprile al Palestrina, una sala parrocchiale. Soltanto da questo week-end siamo anche al Centrale».
E come si conquistano le sale importanti?
«Bisogna entrare nelle grazie di Circuito Cinema, una società che raggruppa i vari proprietari e fa capo alle case di produzione e distribuzione Medusa, Lucky Red, Mikado, 01, Bim e all’Istituto Luce».
Lei non c’è entrato.
«Avevo parlato con Circuito Cinema. Non sono mica pazzo. Mi era stata promessa visibilità per Katyn. Ma all’ultimo momento si sono tirati indietro, accampando mille scuse: “Non è il momento, troppi film...”».
Doveva farsi consigliare da Pansa: «La sinistra non vuole la verità su quanto è avvenuto sino al 1948. Non la vuole perché la “sua” verità, gonfia di menzogne, l’ha già imposta in tutte le sedi: la cultura, la ricerca storica, i testi scolastici, il cinema».
«È un film scomodo, c’è poco da fare. Di fronte al quale la sinistra è rimasta in rigoroso silenzio. Ho scritto al segretario del Pd, Dario Franceschini. Non mi ha neppure risposto. Io stesso, prima d’incontrare Wajda, non sapevo nulla di questa carneficina. Non me ne avevano certo parlato a scuola. In vista della prima romana del film, ho organizzato un viaggio in Polonia per un gruppo di giornalisti, giovani e meno giovani, e la vuol sapere una cosa? Metà di loro, forse di più, non aveva mai sentito parlare di questa località e di ciò che vi era accaduto. Così, al momento di scegliere il titolo italiano per il film, mi sono chiesto: ma i miei connazionali sapranno che cos’è Katyn, non lo scambieranno per un nome di donna o per la traduzione slava di catino? Alla fine ho deciso che era giusto tenere il titolo originale. E oggi posso almeno attribuirmi questo piccolo merito: la gente sa che cos’è Katyn anche senza aver visto il film».
È del 2007. Due anni per arrivare sugli schermi.
«Se non fossi andato io a Varsavia, in Italia non sarebbe mai giunto. Non sto a raccontarle le difficoltà con la Tv di Stato polacca, che detiene i diritti per la distribuzione all’estero. Un funzionario è stato persino rimosso durante le trattative. Wajda ha visto personalmente una nota scritta a mano nella quale un alto dirigente ipotizzava il fallimento dell’iniziativa “per ragioni politiche”. Katyn è stato oscurato in tutta Europa, l’anziano regista sa di molti distributori che lo hanno acquistato solo per non farlo vedere».
E in Polonia?
«Ha incassato come nemmeno i film dei Vanzina da noi: 3,6 milioni di spettatori. Wajda mi ha raccontato che cos’è accaduto alla prima a Varsavia. Ci sono questi dieci minuti finali raggelanti. La dignità degli ufficiali polacchi che vanno a morire uno dietro l’altro, le mani legate col fil di ferro, il colpo di grazia con la baionetta per i pochi ancora vivi dopo l’esecuzione, le ruspe che ricoprono di terra le fosse. Non c’è disperazione, non ci sono urla, non c’è nulla di nulla. Solo sangue e un Pater noster recitato sommessamente, interrotto dalla pistolettata alla nuca e subito ripreso dal commilitone che segue. Alla fine del film, nel buio della sala, uno spettatore s’è alzato in piedi a pregare e ha invitato tutti a fare altrettanto. L’orazione collettiva s’è fusa col canto funebre in latino che scorre sullo schermo nero prima dei titoli di coda».
Ha avuto la nomination all’Oscar, è andato al Festival di Berlino, eppure è stato rifiutato alla Mostra di Venezia. In compenso al Lido hanno ammesso «Un Paese diverso» di Silvio Soldini, il documentario pagato dalle Coop. Com’è possibile?
«Dovrebbe chiederlo a Marco Müller, direttore della Biennale Cinema. Parliamoci chiaro: in Italia il cinema è un sistema di appartenenza dominato dalla sinistra».
Vabbè che Berlusconi non si occupa più delle sue aziende, però resta pur sempre il mero proprietario della Medusa. Allora perché «Katyn» è stato lasciato alla Movimento Film?
«La verità è che tutte le case di distribuzione, tutte, avevano visto il film di Wajda, ma si sono ben guardate dal prenderlo. Ora Medusa home video farà il Dvd per il noleggio privato. Sto battendomi perché arrivi nelle videoteche al più presto, prima dell’estate».
Niente televisione?
«Ho ceduto i diritti a Rai Cinema, senza il cui contributo sarei già fallito. Però per contratto non può trasmetterlo prima di due anni dall’uscita».
Ma qualcuno avrà spiegato al Cavaliere che il suo amico Vladimir Putin ne ha proibito la visione in Russia?
«Come scrive lo storico Victor Zaslavsky nel libro Pulizia di classe dedicato all’eccidio, è stato Putin a ordinare l’archiviazione dell’inchiesta su Katyn che aveva ereditato dai predecessori Gorbaciov ed Eltsin».
Fosse ancora vivo il Papa polacco, le sorti di «Katyn» sarebbero state diverse?
«Completamente».
Si aspettava un simile trattamento?
«Mai e poi mai. E continuo a ripetermi che, se l’avessi saputo prima, non avrei certo distribuito il film. Poi però ci rifletto e concludo che no, rifarei tutto ciò che ho fatto. Non perché sia un idealista. Ma per quei 22.000 nelle fosse, senza una lapide, senza un fiore».
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