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« Torna agli articoli di Tommaso Scandroglio
Suggestiva tesi quella del bioeticista Wesley Smith espressa sul giornale The Epoch Times in un articolo dal titolo Dire no all'imperialismo della "salute pubblica". La tesi è la seguente: «L'establishment medico sta ridefinendo le nostre controversie politiche più dibattute come "emergenze sanitarie pubbliche" in modo da aggirare la resistenza pubblica e imporre alla società politiche che non sono ottenibili attraverso i normali mezzi democratici».
In parole povere: l'apprensione numero uno della maggior parte della gente è la propria salute fisica e psicologica. E dunque se la Scienza - sì quella con la esse maiuscola che trovate nelle riviste scientifiche e nelle università - ci dice che una certa condotta, che nulla apparentemente c'entra con la salute, invece c'entra eccome, ecco che ce n'è abbastanza perché intervenga il governo in modo coattivo per tutelare o vietare quella condotta a suon di decreti o leggi, seguendo il modello pandemia, tanto per intenderci. In tal modo si scavalcherebbe di un solo colpo le proteste dei contestatori. Gli esempi offerti da Smith sono illuminanti a riguardo.
Editoriale del British Medical Journal (Bmj) del 31 agosto scorso a firma del prof. John Middleton: Brexit, profitti aziendali eccessivi, spreco d'acqua, «politiche neoliberiste, interessi commerciali acquisiti e distruttivi, una guerra culturale populista e disinformazione su scala industriale, [...] il collasso climatico globale» sono tutte minacce alla salute pubblica. Faccia bene attenzione il lettore. È vero che ad esempio la Brexit può avere ricadute indirette sulla salute pubblica (la tesi di Middleton è che il costo della vita stia aumentando soprattutto per i percettori di salari più bassi e dunque li impoverisca con grave danno per la loro salute), ma il giochino furbo è il seguente: convertire ogni problema sociale in un problema di salute pubblica, tema su cui tutti sono sensibili, affinchè il governo intervenga. Insomma qualsiasi problema sociale deve diventare problema di salute pubblica e perciò problema politico. In tale dinamica la salute diventa il bene più importante per la società e quindi per il politico. Ed infatti come chiude l'articolo Middleton? «Abbiamo bisogno di una leadership per la salute e di una visione che consideri la salute come la legge somma e l'obiettivo politico più alto». Ma la salute, non solo sul piano soprannaturale, ma anche naturale, non è il bene sommo per una società: la famiglia, la patria, la cultura di un popolo, Dio sono più importanti.
Continuiamo con gli esempi proposti da Smith. «Nel 2021, 230 riviste mediche e bioetiche del mondo - scrive l'autore - hanno pubblicato un editoriale congiunto senza precedenti che sollecita l'elevazione del cambiamento climatico al vertice dell'agenda mondiale della sanità pubblica». 230 (du-e-cen-to-tren-ta) riviste hanno scritto su Bmj: «La scienza è inequivocabile; un aumento globale di 1,5°C rispetto alla media preindustriale e la continua perdita di biodiversità rischiano danni catastrofici alla salute che saranno impossibili da invertire».
Stessa musica leggendo un editoriale pubblicato su The Lancet nel 2021: «Azioni ben progettate per ridurre le emissioni di gas serra (GHG) potrebbero portare grandi benefici per la salute. [...] Studi di modellizzazione stimano che molti milioni di morti [sic] premature potrebbero essere prevenute [...] eliminando gradualmente i combustibili fossili, [...] e incoraggiando i viaggi attivi [camminare, correre o andare in bicicletta], aumentando l'uso dei trasporti pubblici e passando a diete sostenibili e sane». La pandemia ha fatto scuola: la prospettazione da parte della Scienza di milioni di morti giustifica risposte governative draconiane. Quindi perché non ipotizzare per il futuro un decreto che imponga di andare a piedi tutte le domeniche e un divieto di mangiare patatine fritte il martedì a pranzo? A margine: gli studi di modellazione spesso hanno una capacità predittiva uguale a quella della sfera di cristallo.
Pure il razzismo può incidere sulla salute pubblica. Citiamo ancora Lancet con un articolo, pubblicato nel 2021, il cui titolo già dice tutto: È ora di prendere sul serio la teoria critica della razza: andare oltre una lente di genere daltonica nella salute globale. Nell'articolo si può leggere che «occorre accogliere la razza come un fattore onnipresente che influenza la pratica, la ricerca e i risultati della salute globale». Nel settembre di quest'anno gli ha fatto eco la prestigiosa rivista New England Journal of Medicine con un articolo dal titolo Azione affermativa, salute della popolazione e importanza delle opportunità e della speranza. L'azione affermativa è uno strumento politico che mira a privilegiare ingiustamente in ambito sociale alcune persone perché hanno certe caratteristiche etniche, sessuali e sociali che sono minoritarie e/o sottorappresentate in alcuni contesti. Sono quote rosa declinate secondo l'etnia, il sesso, l'orientamento sessuale, etc. e che portano ad esempio gli studenti di colore ad avere corsie privilegiate nelle prove di ingresso in alcune università. Non si premia la bravura, ma il colore della pelle. L'articolo di cui sopra considera l'azione affermativa come una questione di salute pubblica: «l'azione affermativa può anche svolgere un ruolo nel plasmare la salute della popolazione. [...] I divieti statali sull'azione affermativa sono stati associati a un aumento ampio e persistente di comportamenti avversi legati alla salute (fumo e consumo di alcol) tra gli adolescenti neri, ispanici, indiani d'America e nativi dell'Alaska». Compreso? Se non privilegi ingiustamente lo studente di colore questo diventa un ubriacone. Ciò vuol dire che ha qualche problema il ragazzo, non l'università che si rifiuta di adottare il criterio dell'azione affermativa. Ma quello che rileva in questa sede è il tentativo di creare una connessione tra discriminazione e salute pubblica.
Anche l'uso delle armi è una questione di salute pubblica. Lo sostiene l'American Medical Association (Ama) nell'articolo intitolato Task force Ama per affrontare la "crisi sanitaria" dovuta alla violenza armata. Addirittura alcuni ricercatori, in un articolo sull' Ama Journal of Ethics dal titolo Come il settore sanitario può ridurre la violenza trattandola come un contagio, si sono spinti a dire che «la violenza dovrebbe essere meglio intesa come un problema sanitario di carattere epidemico che può essere efficacemente prevenuto e trattato utilizzando metodi sanitari adoperati per fermare fenomeni ed epidemie e ridurne la diffusione. Questa impostazione di natura sanitaria è importante perché riconosce che la violenza è una minaccia per la salute delle popolazioni, che l'esposizione alla violenza causa seri problemi di salute e che il comportamento violento è contagioso e può essere trattato come un processo contagioso». Nulla da obiettare nel qualificare, usando una metafora, la violenza come un'epidemia contagiosa. Ma l'aspetto curioso ed insieme inquietante sta nel fatto che la metafora cessa di essere tale se per ridurre la violenza nelle strade e nelle case deve intervenire il virologo o il medico, non lo psicologo o lo psicoterapeuta.
Ricorda infine Smith: «Recentemente, il governatore del New Mexico ha qualificato la violenza armata ad Albuquerque un'emergenza sanitaria pubblica e ha emesso un ordine emergenziale che sospende il diritto di portare armi in pubblico in tutta la contea di Bernalillo». L'ordine del governatore è stato sospeso perché viola il Secondo emendamento che tutela il diritto di portare armi, ma ciò non toglie che, con il pretesto che la violenza armata è un tema di salute pubblica, allora chi governa può intervenire nella vita privata dei cittadini.
Concludendo, la CO2, gli hamburger, il colore della pelle bianca, la ricchezza personale, la cultura conservatrice, il credo religioso, la detenzione di una Colt calibro 38 possono attentare alla salute pubblica e perciò giustificano azioni di repressione governative per il bene di tutti.
Nota di BastaBugie: Stefano Magni nell'articolo seguente dal titolo "Groenlandia, scoppia il nuovo caso di eugenetica razzista" parla della pratica di applicare la spirale contraccettiva a inconsapevoli ragazzine di etnia inuit (esquimesi), appena entrate nella pubertà. Oggi scoppia il caso, con la richiesta di risarcimento di 67 vittime.
Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 5 ottobre 2023:
Talvolta, ancora oggi, riemergono gli errori e gli orrori dei programmi eugenetici scandinavi. L'ultimo in ordine di tempo è in Groenlandia, tuttora territorio della Danimarca anche se pienamente autonomo dal 2009. La "campagna della spirale" è stata condotta dal 1966 alla metà degli anni 70: la pratica di applicare la spirale contraccettiva a inconsapevoli ragazzine di etnia inuit, appena entrate nella pubertà.
Il governo di Copenaghen e quello autonomo della Groenlandia hanno aperto un'inchiesta all'inizio dell'anno, dopo che un podcast di successo aveva rispolverato il caso. Ma un gruppo di 67 donne, vittime della pratica contraccettiva, ha deciso di far causa da subito, senza attendere i tempi (almeno due anni) dell'inchiesta, chiedendo l'equivalente di 40mila euro di risarcimento al governo. Perché in molti casi, la loro vita è stata rovinata.
In tutto le ragazzine a cui è stata applicata la spirale contraccettiva, senza informarle e senza neppure consultare i genitori, sono almeno 4500, tutte di etnia inuit. La prima donna che ha raccontato la sua esperienza sei anni fa ed ora guida la class action contro il governo è Naja Lyberth, psicologa. Quando aveva 13 anni, nei primi anni 70, un medico disse a Naja di recarsi all'ospedale locale per un piccolo intervento, in seguito a una visita medica scolastica di routine. "Non sapevo bene di cosa si trattasse perché non mi ha mai spiegato né chiesto il permesso", racconta Naja, che all'epoca viveva a Maniitsoq, una piccola città sulla costa occidentale della Groenlandia. "Avevo paura. Non potevo dirlo ai miei genitori", racconta alla BBC. "Ricordo i dottori [in] camice bianco, e forse c'era un'infermiera. Ho visto le cose metalliche [staffe] dove si dovevano aprire le gambe. Era molto spaventoso. L'attrezzatura usata dai medici era così grande per il mio corpo di bambina: era come avere dei coltelli dentro di me".
Le applicazioni di contraccettivi sono avvenute soprattutto in Groenlandia, ma anche in territorio danese su ragazze di etnia inuit provenienti dalla Groenlandia. Come Arnannguaq Poulsen a cui è stata applicata la spirale quando aveva 16 anni, sull'isola di Bornholm. Nel 1974 studiava in un collegio per studenti groenlandesi in Danimarca. "Non mi hanno chiesto nulla prima dell'intervento e non avevo idea di cosa si trattasse o di cosa fosse la spirale", racconta oggi.
La spirale è un metodo contraccettivo reversibile. La Lyberth ha avuto un figlio (dopo molte complicazioni) all'età di 35 anni. Per molte donne sottoposte a questo intervento contraccettivo involontario, tuttavia, la pratica è risultata pari a una sterilizzazione. Negli anni 60 e 70 le spirali erano più grandi di quelle usate oggi e nel corpo di una bambina potevano provocare danni più frequentemente. La mancanza assoluta di informazione e di vigilanza medica successiva all'applicazione, hanno fatto sì che, pur incredibile che sembri, molte donne non erano consapevoli neppure di avere la spirale. Ad esempio, Katrine Jakobsen, di Nuuk, ha tenuto la spirale, applicata nel 1974, per quasi due decenni, soffrendo di dolori e di una serie di complicazioni. Alla fine le fu asportato l'utero. Fino a poco tempo fa, i ginecologi groenlandesi trovavano la spirale in donne che non ne conoscevano la presenza. Una donna ha scoperto solo l'anno scorso che le era stata applicata, secondo quanto riferisce Lyberth. Anche l'assistenza post-operatoria era molto carente. Molte donne sono rimaste con forti dolori, emorragie interne e infezioni addominali, mentre molte hanno dovuto farsi rimuovere l'utero o hanno perso la capacità di avere figli.
La contraccezione involontaria e la sterilizzazione forzata sono pratiche frequenti nei programmi eugenetici scandinavi. Il caso più eclatante è quello della Svezia, che ha eseguito operazioni di sterilizzazione forzata dal 1934 al 1975, su persone portatrici di disabilità o semplicemente considerate "non convenzionali" nei loro comportamenti. Si poteva perdere la propria capacità riproduttiva anche solo per una denuncia di comportamento deviante da parte di un vicino di casa. Anche negli Usa la sterilizzazione forzata venne praticata, soprattutto nella prima metà del Novecento, per eliminare la fertilità di svariate categorie di cittadini: malati di mente, albini, alcolizzati, talassemici, epilettici, immigrati come irlandesi e italiani, afroamericani e messicani.
L'eugenetica è stata condannata, moralmente e poi anche politicamente, solo molti anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando si realizzò che era alla base delle purghe del regime nazista. Eutanasia e sterilizzazione obbligatoria erano pratica comune per migliorare la "razza" ariana. Condannata dopo la sconfitta della Germania, è stato però molto più difficile realizzare che anche i sistemi sanitari di Paesi democratici seguivano esattamente la stessa logica e per gli stessi fini.
Il caso danese permette ancora una volta di capire quali siano le due principali caratteristiche della politica eugenetica. È una pratica legata strettamente al welfare state: la giustificazione economica, in un sistema in cui il benessere dipende dalla redistribuzione dei beni, è che lo Stato non può occuparsi di tutti. Meno si è, più ampia sarà la fetta di benessere che potrà essere distribuita a ciascuno. La seconda caratteristica è il razzismo: se vuoi poter godere dei servizi dello Stato non c'è posto per le minoranze. E poi devi "meritarti" l'appartenenza alla comunità, perciò non puoi riprodurti se sei malato e quindi sei un peso. Lo Stato, dunque, elimina i corpi estranei e procede con la purga dei suoi cittadini per migliorarne la "razza", nel pieno e razzista senso del termine. A farne le spese, dunque, sono stati anche gli inuit della Groenlandia.
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